“La Lucana è come la Libia, ricca di petrolio e povertà”. Questa frase attribuita sui motori di ricerca a Marco Pannella, politico ma soprattutto uomo che ha fatto della lotta per i diritti civili e la giustizia sociale una coerente bandiera, ha reso immortale una delle contraddizioni più palesi ed evidenti della Basilicata e nasce dal pensiero arguto e dalla dialettica forgiata da mille battaglie di Maurizio Bolognetti, che nell’epoca dei segretari, dei presidenti o dei coordinatori ci piace definirlo il volto simbolo dei Radicali (quelli veri) made in Basilicata e uno degli uomini più vicini a Pannella. Un binomio che tanto ha dato alla Lucania e tanto ha fatto per svegliare il torpore delle coscienze, talvolta (volontariamente) distratte. Qui, nel luogo paragonato alla Libia, Bolognetti – il più delle volte da solo – ha combattuto per citare De Andrè, in direzione ostinata per la sete di verità e contraria rispetto a quello che “non doveva esser detto”. Controlli, monitoraggi, sicurezza, ambiente, sviluppo sono parole ripetute, nel corso degli anni e delle tantissime proteste non violente, centinaia e centinaia di volte, e racchiudono il senso di quello che è stato l’oro nero per la Basilicata, croce per tantissimi, delizia per pochi. Ambiente – che è il bene primario e comune da tutelare – ma anche mancato sviluppo per una terra già figlia di un Dio minore. “Le royalties sono state utilizzate per innescare processi di sviluppo?”, domanda sarcasticamente Bolognetti in più occasioni con la coerenza di chi è senza padroni. Ed è questo il reale paradosso lucano. Una regione che, pur essendo ricca di risorse naturali, continua a soffrire i drammi del nostro tempo, che sostanzialmente sono quelli storici già denunciati da illustri meridionalisti e statisti a partire dal periodo post-unitario. Per Francesco Saverio Nitti, uno che di certo non ha bisogno di presentazioni, la Basilicata, come gran parte delle regioni del Mezzogiorno, era segnata da un grave ritardo nello sviluppo economico rispetto al resto d’Italia, aggravato dalla carenza di infrastrutture moderne, da un’agricoltura povera e arretrata spesso caratterizzata da una gestione feudale della terra e dalla mancanza di una vera industria. La “questione meridionale”, per Nitti, era un problema radicato nelle strutture sociali ed economiche che impedivano ogni forma di crescita e modernizzazione, da una scarsità di capitale e da un’economia dipendente dalla tradizione e non dall’innovazione. Nitti teorizzava un forte impegno da parte dello Stato centrale, ma anche una forte reazione delle classi dirigenti locali, che dovevano uscire dalla logica assistenzialista, che oggi potrebbe essere tradotto nella politica dei bonus, per promuovere un vero processo di emancipazione economica. Il concetto di “cultura industriale” che Nitti proponeva non era solo legato alla presenza di impianti industriali, ma includeva una serie di fattori: la mentalità imprenditoriale, l’organizzazione del lavoro, l’innovazione tecnologica, la capacità di progettare e gestire attività produttive complesse, sottolineando come il Sud Italia fosse stato vittima di una “colonizzazione” economica, con investimenti esterni che non contribuivano a sviluppare una cultura imprenditoriale locale. Invece di promuovere la nascita di piccole e medie imprese autoctone, il modello economico che si era imposto aveva creato un’economia dipendente dall’intervento dello Stato e da investimenti di capitali esterni. Parole, a distanza di oltre un secolo, ancora attualissime. Bonus, assistenzialismo, multinazionali, mancanza di un vero tessuto industriale, scarse infrastrutture, innovazione ferma al palo, risorse naturali si mescolano tra loro. L’ultimo rapporto Svimez (2024), che fotografa la situazione economica e sociale del Mezzogiorno, ha tracciato un quadro inquietante per la regione, certificando un vero e proprio stato di crisi. La Basilicata si colloca tra le ultime regioni d’Italia per crescita del Pil (-5,7% nel periodo 2019-2023). Il modello di sfruttamento delle risorse petrolifere è stato troppo spesso incapace di tradursi in ricchezza tangibile e sostenibile. La politica locale, da un lato, ha cercato di massimizzare i guadagni derivanti dalle royalties, ma dall’altro ha fallito nel creare una vera diversificazione economica. Le politiche regionali di sviluppo, ad oggi, sono state insufficienti nel dare risposte concrete alle sfide economiche e sociali della Basilicata. A questo quadro già complesso si aggiunge un altro grave problema: il forte spopolamento, che segna un ulteriore segnale di crisi. Secondo il rapporto Svimez, la Basilicata è la prima regione del Mezzogiorno per calo demografico, con una perdita della popolazione residente pari al -7,4% tra il 2019 e il 2023. In effetti, la regione continua a vedere l’emigrazione dei suoi giovani, che fuggono in cerca di opportunità altrove, soprattutto nel Nord Italia o all’estero. Questi flussi migratori hanno un impatto devastante sul capitale umano che si impoverisce di giovani laureati, operai qualificati e professionisti, già vittime di una carenza di opportunità di lavoro. Il risultato è che la Basilicata diventa un territorio sempre più anziano, con un indebolimento delle sue risorse umane e con il rischio di diventare una regione marginale nell’economia nazionale nonostante i giacimenti più grandi d’Italia, nonostante l’oro blu, ormai a scartamento ridotto. L’analogia con la Libia di Bolognetti, seppur provocatoria, ha un suo fondamento nella constatazione che entrambi i territori sono ricchi di risorse naturali strategiche (petrolio e gas), ma non sono riusciti a tradurre questa ricchezza in benessere per la popolazione. Perchè – come teorizzava Nitti – non è stata sviluppata una cultura industriale locale che potesse beneficiare a lungo termine di queste ricchezze.
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