“Ciò che trova ora più facilmente ascolto non è più la notizia che viene da lontano, ma l’informazione che offre un aggancio immediato”. Sembra una sentenza per il presente a definire il rapporto tra utente e sistema dei media ed invece sono parole scritte da Walter Benjamin negli anni trenta del secolo scorso (da “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov” in “Opere complete”, Einaudi).
Per un verso, come ci spiega il filosofo tedesco, l’incidente automobilistico capitato all’incrocio sotto casa conta di più della strage in un paese remoto. Per un altro verso la “profondità” s’è smarrita, cioè si è consumata la storia, si è immiserita ogni modalità di narrazione della storia. Le nostre guerre (Ucraina o Palestina) sono eventi che si vivono alla superficie: ciò che è avvenuto prima è ridotto, banalizzato, dimenticato. Se è Israele a occupare le prime pagine, la memoria non va oltre il 7 ottobre. Poco conta sapere che cosa sia stata la lunga vicenda della Palestina prima di quella data tragica, che cosa sia stato il movimento sionista, quanti morti abbia provocato l’Irgun.
Si passa da una notizia all’altra, senza fermare sguardo e pensiero
Il lettore moderno di quotidiani salta da una novità all’altra, anziché lasciar spaziare lo sguardo verso ciò che è distante dalla sua quotidianità. Ha perso lo sguardo lungo, lento, che sa indugiare. I nuovi strumenti della comunicazione hanno accentuato a oltranza questo consumo del tutto orizzontale della informazione: su un iphone è tutto uno scorrere frenetico, inesauribile, perché l’offerta è continua.
La storia (ma sarebbe più comodo scrivere di conoscenza della storia o memoria della storia) non gode di buona salute e forse non ha mai goduto di buona salute, tanto d’aver rischiato spesso di essere tramandata come un coacervo di luoghi comuni. Ce li “beviamo” per la fretta appunto di andare oltre, per la comodità e la facilità di cogliere quanto galleggia sulla cresta dell’onda del conformismo. Erodoto aveva insegnato altro, a considerare cioè gli eventi guardando a destra e a sinistra, in alto e in basso, confrontando le versioni, i punti di vista, le sensibilità. Contro Erodoto hanno complottato il potere politico, i giornali, la televisione e naturalmente pure gli storici. Manipolazioni, a non solo, ma anche dimenticanza, voluta naturalmente, che applica la pratica dello scarto: abbandonare per non ritrovare, per accantonare e ignorare. Oppure è un manipolare in funzione di un determinato scopo.
Marco Brando, in un libro recente, “Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani” (Salerno editore), analizza ad esempio come alcuni secoli del nostro passato siano transitati dalla loro complessità al pregiudizio che semplifica e che una responsabilità forte l’abbiano ancora i media, giornali e televisioni.
Quel pregiudizio che semplifica e sbaglia
Per la verità aggiungerei la scuola, quella forse di un tempo più che di quella in corso, che ha affidato ai suoi allievi una idea del Medioevo come un’epoca buia, di declino, di barbarie, tra la caduta del grandioso impero romano e gli splendori del Rinascimento (Rinascimento non a caso), al punto che (e qui entrano in gioco i giornali) dilagano un aggettivo come “medioevale” o un’espressione come “roba da Medioevo”, nell’accezione che ha poco a che fare con la realtà ma solo con una pessima fama.
Salvo celebrare, in modo strumentale, episodi o personaggi: le Crociate per esaltare le virtù religiose di nobili guerrieri in tunica bianca e croce rossa sul petto; Alberto da Giussano giusto per un contributo alla costruzione della ideologia leghista di Umberto Bossi, per darle fondamenta solide; Braveheart, sfortunato guerriero scozzese (vissuto in Italia come campione del regionalismo, dell’indipendenza).
Marco Brando ci propone un’ampia casistica, con dovizia di esempi e di nomi, da Vinicio Capossela, cantautore di indubbia cultura, a Giorgia Meloni. Naturalmente non manca la documentazione di una critica severa a questa tendenza “negazionista”, critica sorretta da altre meno “nere”, ben più documentate letture di quei secoli, secondo il contributo offerto da una storiografia che da Bloch, Braudel, Duby in poi si è via via arricchita di nuovi contenuti…
Desolante il rapporto dell’informazione con la storia
Marco Brando chiude affrontando un punto assai critico e cioè il rapporto tra l’informazione quotidiana e la storia. Perché i giornali si alimentano di storia, ricorrendo ad anniversari, lutti, ricorrenze di vario genere, persino feste celebrative o folclore. La storia è argomento principe da telequiz. Quando è stata scoperta l’America da Cristoforo Colombo? Quando è andato al potere Hitler? Chi era Galileo Galilei? Eccetera eccetera.
Con quali esiti? Al di là della comicità delle risposte, il quadro si presenta desolante. Ma, per giustizia, si dovrebbe citare anche il caso di quei parlamentari che, in diretta tv, riuscirono a collocare la rivoluzione francese tra Otto e Novecento.
Certo i giornali e i giornalisti si sono sostituiti agli storici in un’opera di divulgazione. Gli esiti sono spesso assai modesti, ma come spiega Brando “la narrazione falsata della storia – fatta in modo consapevole o inconsapevole – dilaga anche grazie al volontario disarmo scelto dagli storici: rinunciano quasi sempre a sfoderare in pubblico e fuori dall’accademia le armi della dialettica storiografica”.
E qui si scopre uno dei peccati mortali della accademia, elitaria, refrattaria, poco disposta a comunicare con un pubblico che non sia quello delle aule universitarie, se non quando l’argomento si offre, tra giornali o televisioni o siti internet , alla polemica politica.
Marco Brando, “Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani” (Salerno editrice. Pag. 176, euro 17)
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