di Enrico De Angelis
Il testo originale è stato pubblicato sulla rivista UntoldMag. La traduzione è di Francesco De Lellis, con alcune aggiunte dell’autore.
Ogni giorno ci svegliamo con un nuovo bollettino di morte e distruzione sistematica. Uno stillicidio che continua da un anno almeno. Il tentativo di restare al passo con gli eventi e condividere questi aggiornamenti con il mondo non solo è emotivamente logorante, ma crea anche un effetto di dissonanza cognitiva, perché siamo costretti ad accettare la negazione, la finzione di normalità e la mancanza di empatia di una parte consistente del mondo.
Pur trattandosi di un genere di frustrazione probabilmente già sperimentato da chi ha a cuore altre cause o si occupa di narrare altri conflitti, c’è un cortocircuito inedito nel modo in cui la sofferenza degli “altri” è comunicata, condivisa e vissuta di fronte alla violenza radicale che Israele ha imposto a Gaza (e ora in Libano) nell’ultimo anno.
Questa è una raccolta di appunti, che cercano di dare un senso a questa continua frustrazione e alla sensazione di impotenza che molti di noi sperimentano in questo periodo. Sulla base del modo in cui alcuni mediattivisti e studiosi di comunicazione hanno descritto la loro esperienza, e naturalmente sulla base della mia stessa esperienza, ho identificato quattro “anomalie” che possono contribuire a spiegare almeno parzialmente questo cortocircuito. Non rappresentano necessariamente fenomeni nuovi. In un certo senso, sono forse la prosecuzione naturale di processi che erano in atto da tempo. A ogni modo, non c’è dubbio che stiamo vivendo in un’epoca in cui qualsiasi parvenza di normalità è crollata.
La normalizzazione dell’intollerabile
Un paio di settimane fa mi sono imbattuto in un video podcast in cui Henry Winkler (il “Fonzie” di Happy Days) discuteva degli eventi in corso in Palestina con Bill Maher, un comico americano.
A un certo punto Maher afferma che l’esercito israeliano sta facendo tutto il possibile per evitare di uccidere civili.
Winkler appare sbalordito:
– Ma stiamo vedendo gli stessi video?
– Tu credi che stiano uccidendo deliberatamente i civili?
– Io credo che [le uccisioni] siano indiscriminate.
Il filmato è diventato virale, e molti commentatori pro-Palestina hanno condiviso il frammento in cui “Fonzie” avrebbe rimesso Maher “al suo posto”.
C’è un problema però. Winkler non si alza per andare via dallo studio, anche dopo uno scambio che ha smascherato il conduttore per quello che è, una persona che giustifica il massacro “indiscriminato” di civili in atto. Il video si conclude con le due celebrità che discutono della squisitezza del cibo israeliano.
Credo che questo dialogo sia emblematico di una delle principali anomalie di fronte alle quali siamo messi nell’attuale clima culturale e politico.
Come si fa ad argomentare e discutere con persone che assumono chiaramente posizioni genocidarie, razziste e colonialiste, senza legittimarle e senza normalizzare i massacri facendone un argomento che può essere tranquillamente analizzato dalle comode poltrone di uno studio televisivo?
Si tratta di un dilemma ampiamente discusso tra attivisti, giornalisti e studiosi che tentano di combattere le narrazioni della propaganda filo-israeliana.
Non è un caso che Mehdi Hassan, uno dei giornalisti più impegnati nel condannare quello che sta accadendo, sia stato duramente criticato per aver accettato di discutere in pubblico con esponenti della campagna di pubbliche relazioni israeliana, negazionisti della realtà come Eylon Levy, un ex portavoce del governo israeliano.
D’altro canto, come dovremmo reagire quando, come ha mostrato di recente un altro video, il sindaco di Berlino (CDU) afferma “[il genocidio] non sta accadendo, punto. Pensavo che questo fosse assodato”?
Non è certo una novità: banalizzare l’orrore e le sofferenze delle guerre, o di questioni importanti, o riproporle sotto forma di spettacolo per ottenere ascolti e popolarità è sempre stata una parte della moderna macchina mediatica.
Tuttavia, la presunta presenza di regole comuni un tempo consentiva di fissare alcuni limiti per non cadere completamente in una distopia da post-verità nella quale il dialogo, anche se inscenato, diventa impossibile, perché non c’è più alcun terreno comune.
Per portare all’estremo tali questioni: se vivessimo nell’Europa degli anni ‘30 del Novecento, ma consapevoli di quello che sarebbe accaduto dopo, ci metteremmo seduti a discutere con i fascisti solo per salvare la facciata del gioco democratico? O nella convinzione di poter negoziare con loro una soluzione che non preveda il nostro totale annullamento?
Potrebbe sembrare un parallelo forzato, ma non lo è. I partiti e movimenti di estrema destra sono in ascesa ovunque. Le condizioni economiche peggiorano. Le guerre infuriano in ogni parte del globo. In questo contesto le azioni di Israele stanno chiaramente accelerando il collasso dell’ordine democratico liberale.
Come ha sottolineato Eyal Weizmann, fondatore di Forensic Architecture, in un recente incontro a Berlino, il genocidio richiede necessariamente un enorme sforzo per mettere a tacere le voci critiche e raccogliere consensi all’esterno, nel resto del mondo, e in special modo negli Stati Uniti. Di fronte al massiccio e variegato movimento globale che denuncia i massacri in Palestina, e ora anche in Libano, l’unica scelta per chi lo contrasta è reprimere quelle voci con la forza e con le minacce, e avere i media mainstream completamente allineati: questo sta compromettendo, come ho già analizzato più in dettaglio, i loro ultimi residui di credibilità. Infine, Gaza e la Palestina in generale sono diventati dei laboratori in cui testare tecnologie, dai dispositivi di riconoscimento biometrico alle macchine per la produzione di bersagli basate sull’IA, fino ai droni di sorveglianza, che possono essere reimpiegati anche in altri contesti, minando ulteriormente le democrazie e la coesistenza pubblica.
La fede nella forza pura
La seconda anomalia, strettamente legata alla prima, è che ci troviamo nel bel mezzo di un rigurgito del discorso colonialista che permea gran parte dei dibattiti. Il costante riferimento allo scontro di civiltà e alla necessità di difendere il cosiddetto occidente sottintende che Israele in questo momento si trova sulla linea del fronte e deve essere difeso. Di recente Federico Rampini, una delle firme più note de La Repubblica, ha pubblicato un libro intitolato Grazie Occidente. In un video di presentazione, il giornalista spiega di aver voluto mostrare che la civiltà occidentale ha reso il mondo migliore, portando tecnologie e scoperte scientifiche che hanno salvato o migliorato la vita di molte persone native nei paesi colonizzati.
Parole come “civilizzazione” sono rientrate nel lessico politico, non solo tra l’estrema destra ma anche tra le élite liberali “centriste”. È come se stessimo cancellando decenni di comprensione storica di quello che l’esperienza coloniale è stata per coloro che l’hanno subita.
Sembra che il linguaggio sia improvvisamente tornato indietro al XIX secolo. Di recente leggendo il romanzo Mare di papaveri, scritto nel 2008 dal pluripremiato scrittore indiano Amitav Ghosh e ambientato agli albori della prima guerra dell’oppio, nel 1839, ho trovato un parallelismo incredibile in termini di discorsi politici.
Contro la pervadente finzione di moralità, un capitano britannico disilluso si sfoga dicendo: “Non siamo diversi dai faraoni o dai mongoli: l’unica differenza è che quando uccidiamo la gente, pretendiamo che sia per una causa superiore. È questa pretesa di virtù, ve lo garantisco, che non reggerà al giudizio della storia” [trad. it. di Anna Nadotti e Norman Gobetti, Neri Pozza, 2008]. Questo riecheggia un passo di Joseph Conrad in Cuore di tenebra, in cui Marlow, il marinaio protagonista, afferma: “La conquista della terra, che generalmente significa strapparla a chi ha la pelle diversa o un naso leggermente più schiacciato del nostro, non è un gran bello spettacolo quando la si guardi da vicino. Ciò che la redime è soltanto l’idea. Un’idea che la riscatti, non una scusa sentimentale, ma un’idea, e una fede disinteressata in quest’idea, un feticcio da innalzare, davanti al quale ci si possa inchinare e offrir sacrifici” [trad. it. di Mario Curreli, Bompiani, 2013].
Forse oggi persino quella finzione morale, quell’idea, sembra non più necessaria. Di recente in un thread su X, Peter Harling, analista e co-fondatore della piattaforma Synaps, ha commentato l’attacco terroristico ai cercapersone in Libano, osservando che Israele ha sempre costruito il suo modus operandi sulla rappresaglia sproporzionata contro il nemico, mostrando un totale sprezzo del diritto internazionale. Un modus operandi che dimostra, così scrive, una “fede tracotante nella forza pura”.
Questa immagine riflette la dolente descrizione fatta da Omer Bartov [storico israeliano, tra i maggiori studiosi dell’Olocausto, ndT] di un paese intrappolato nella sua stessa maledizione auto-inferta del doversi fondare su uno stato di guerra perenne, o l’idea – avanzata da Hardt e Mezzadra – che siamo entrati ormai in un regime di guerra globale.
Questo modo di ragionare sta contaminando inevitabilmente gli alleati di Israele, fin da quando hanno deciso – all’indomani del 7 ottobre 2023 – di appoggiarlo incondizionatamente. Si è manifestata una mentalità coloniale, che si presenta tuttavia sotto una nuova veste. Accettata la sconfitta nella battaglia egemonica a livello globale, e forse anche sul fronte interno, hanno deciso di fare affidamento esclusivamente sulla sua superiorità militare. Possono accontentarsi, come Israele ha sempre fatto, di ripetere il mantra dell’”esercito più morale del mondo”, e brandire la parola “terrorista” contro i loro nemici, o persino fingere che l’obiettivo sia quello di “liberarli”.
Eppure, ormai resta ben poco di tutta la sovrastruttura legale-culturale-politica che un tempo serviva a giustificarne la dominanza su un terreno diverso dal quello delle armi. La “fede disinteressata” o la “pretesa di moralità” che troviamo in quei romanzi, incastonata nel nocciolo dell’impresa coloniale, non funziona neppure come fragile mantello per nascondere l’idea che la forza è l’unica cosa che conta.
Ed ecco la sfida che scaturisce da questa constatazione: Come interagire con interlocutori che abbracciano queste opinioni in modo così scellerato e con un tale senso di impunità, e come stabilire un dialogo autentico con loro? Dobbiamo forse accontentarci di ritirarci in una sorta di guerra di posizione gramsciana, e almeno salvaguardare memorie e opinioni, rafforzare canali di comunicazione e media alternativi, creare reti di solidarietà e consolidare alleanze e organizzazioni? Cosa ci resta da fare?
L’inesorabile paradosso del rendere visibile l’orrore
La terza anomalia ha a che fare con il bisogno di continuare a raccontare e denunciare un massacro interminabile. Anche questa non è del tutto una novità. L’effetto di desensibilizzazione di un’opinione pubblica incessantemente sommersa da notizie e immagini di violenza è cosa ormai riconosciuta da tempo. Già il fotografo americano John Berger affermò che l’esposizione prolungata alle foto della guerra del Vietnam produceva un effetto di depoliticizzazione. La foto, dice, “diventa una testimonianza della condizione umana in generale. Un’accusa contro tutti e nessuno” [Sul guardare, trad. it. di Maria Nadotti, Il Saggiatore, 2017]. A coloro che stanno a guardare la violenza in corso, impotenti, restano solo due opzioni: scrollarsi di dosso il senso di inadeguatezza, o compiere una forma di espiazione, ad esempio facendo una donazione a qualche organizzazione umanitaria.
I mediattivisti e fotografi siriani hanno imparato molto bene questa lezione durante la loro rivoluzione/guerra civile. Anche in quel caso, in uno degli eventi più mediatizzati della storia l’enorme quantità di materiali visivi che documentavano i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani non hanno suscitato quella solidarietà che ci si aspettava dalla comunità internazionale, tutt’altro.
La situazione a Gaza, tuttavia, è di un altro livello. I massacri e la distruzione sono senza precedenti, molto più veloci, e – soprattutto – avvengono con la piena complicità degli Stati Uniti e della maggior parte dei paesi europei. È difficile, anche per i mediattivisti e per le persone più coinvolte, tenere il passo con la violenza sempre crescente e con le cosiddette “bad news”.
L’ultimo bombardamento di un campo profughi ci appare come qualcosa che nessuno può tollerare, una tragedia in cui si è “toccato il fondo”, ma una settimana dopo una scuola viene rasa al suolo. Dopo l’uccisione degli ostaggi israeliani che sventolavano la bandiera bianca, vengono ritrovati i cadaveri di bambini palestinesi uccisi dai cecchini israeliani. Il recente bombardamento di massa in Libano ne è un altro esempio. L’escalation diventa il carattere principale di un nuovo modo di fare guerra, ed è anche una strategia che ci mette di fronte alla nostra incapacità di narrarla.
La costante esigenza di avere empatia umana, capacità di osservare l’orrore, di tenere insieme tutti i fili (uccisioni, sfollamenti, bombe, umiliazioni, stupri, carestie, epidemie) per ricomporre il puzzle del genocidio in corso, è semplicemente impossibile da soddisfare per un anno intero. Questa è una sfida tipica per mediattivisti, giornalisti e studiosi, ma ora ha raggiunto un livello senza precedenti.
Come ha detto di recente Marwa Fatafta, giornalista e attivista palestinese: come si può documentare e raccontare tutto questo orrore senza finire per essere complici della disumanizzazione dei palestinesi, ridotti a numeri, le cui immagini sono ridotte a immagini di vittime? Se questa guerra è finalizzata a produrre shock e sgomento, a fare da monito a coloro che sfidano il nuovo ordine mondiale, non stiamo forse anche noi contribuendo ad amplificare questo messaggio?
Un compito impossibile
L’ultimo paradosso è come possiamo raccontare la storia della “distruzione della distruzione”, e questo riguarda più nello specifico Gaza. La studiosa e attivista palestinese Yasmeen Daher di recente ha usato questa espressione per riferirsi all’atto ripetuto di rimozione imposto ai palestinesi in fasi diverse della loro storia. Gaza è infatti un territorio la cui stessa esistenza ha origine da distruzioni precedenti. È una terra di rifugiati fuggiti dalla pulizia etnica della Palestina storica. Anche dopo il 7 ottobre le persone sfollate dal nord annientato e cancellato sono state nuovamente bombardate, e spesso sono morte, nel sud, nelle tende dei campi profughi di Khan Younis o di Rafah.
Questo elemento aggiunge una stratificazione che è estremamente difficile includere, o spiegare, quando si presentano le scene della distruzione presente. Ogni volta che un edificio crolla, o che bruciano delle tende, o che una strada viene ridotta in macerie: si tratta di luoghi e persone che vengono cancellate per una seconda, o terza volta.
Immagini e foto, soprattutto in una guerra, ci rinviano sempre ad altre immagini, a quelle mancanti: immagini che nessuno ha ripreso perché nessuno era presente per farlo, o che sono troppo crude per poter essere mostrate, ma anche immagini di quelle stesse persone che vivono le loro vite “normali”, in tempi “normali”.
A Gaza le immagini della distruzione contengono sempre al loro interno le storie nascoste degli sfollamenti, della pulizia etnica, della ghettizzazione e delle violenze passate. L’immagine assente questa volta non ci mostrerà quella che noi identifichiamo come “normalità”: ci racconterà piuttosto di un’altra distruzione, e ci rivelerà che l’atto di annientamento a cui stiamo assistendo in questo momento, attraverso le immagini che abbiamo, è un atto che si ripete uguale a se stesso.
Sui social media, o con qualunque altro mezzo, è estremamente difficile comunicare o anche solo afferrare giorno dopo giorno la portata della tragedia che sta dietro la distruzione della distruzione. La cancellazione della memoria raddoppia, e l’inadeguatezza delle immagini è ancor più pronunciata che negli altri conflitti.
Questa è l’ultima “anomalia”: Come possiamo narrare quello che sta avvenendo a Gaza ricordando a noi stessi, e agli altri, che quelle persone non avrebbero dovuto neppure essere lì? Che questa è una cancellazione operata su un’altra cancellazione, solo un episodio in un infinito esercizio di violenza?
La nostra frustrazione e il nostro shock non deriva solo dall’essere entrati in contatto con l’orrore e con l’ingiustizia ad esso sottesa. Questa volta tutte le nostre azioni e le nostre possibili risposte si compiono in una realtà diversa, con regole diverse e interlocutori diversi. E il nostro futuro non è mai stato così incerto.
Un fotografo siriano una volta mi ha detto che sentiva l’obbligo di continuare a guardare l’orrore non solo per la vittima, ma soprattutto per la persona che aveva deciso di scattare la foto: il fotografo assente.
Mai prima d’ora è stata così palese la nostra inadeguatezza nel “fare qualcosa” con il materiale sconvolgente che i palestinesi (e ora anche i libanesi) sul campo stanno producendo a loro rischio e pericolo, che si tratti di persone comuni, giornalisti, o attivisti. Eppure, sono spesso loro i primi a restare fuori dall’inquadratura del visibile, perché sono quelli che registrano ciò che accade agli altri, dietro una videocamera, oppure informandoci instancabilmente da dietro un computer o uno smartphone, nonostante tutto.
La spinta a continuare a lottare e ad affrontare queste sfide viene da loro. È per loro.
In questo contesto impossibile, l’unica cosa che possiamo fare, come ha affermato il filosofo e sociologo francese Edgar Morin, è continuare a testimoniare, resistere nello spirito, e non lasciar dimenticare. Osservare, cercare di capire, condividere e manifestare sono un obbligo non solo nei confronti delle vittime, ma anche di coloro che già combattono per mantenerne vivo il ricordo, e anche di noi stessi e del futuro che vogliamo costruire.
Le riflessioni di Yasmeen Daher ed Eyal Weizmann sono state presentate nel corso di una conversazione avuta al KM28, a Berlin, il 24 ottobre 2024.
Ringrazio Yazan Badran per aver contribuito a questo testo.
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