Fedele alla sua immagine- che, almeno sul piano elettorale, conta più della sostanza, Trump è partito lancia in resta con una serie di nomine col botto. Capaci di far intravedere cambiamenti rivoluzionari nel governo che partirà con l’anno nuovo. Due fedelissimi dal pugno di ferro su immigrazione e scontro con la Cina, il visionario Musk con il compito di far risparmiare duemila miliardi prosciugando il bilancio federale destinato alla PA sono annunci che hanno mandato in visibilio la platea dei suoi fan. E ancora non è arrivato il piatto forte, le tariffe protezionistiche che dovrebbero far decollare le fabbriche Usa. Ma reggeranno tutti questi propositi alla dura prova dei fatti?
Il primo scoglio riguarda il programma di deportazione di massa di centinaia di migliaia di immigrati. Costerebbe diverse centinaia di miliardi, e tra pastoie burocratiche e giudiziarie rischia di impantanarsi in tempi biblici. Per non parlare delle contraddizioni economiche: metà degli occupati attuali nell’agricoltura sono illegali, e le industrie continuano ad avere fame di lavoro nero. E come metterla con lo scontro col Messico, che non saprebbe come gestire quest’ondata di disperati di ritorno?
Le cose non si annunciano più semplici sul fronte della riforma della macchina federale. Musk e il suo partner in questa impresa, il miliardario Vivek Ramaswamy, sono imprenditori di successo determinati a utilizzare a tutto campo sistemi e aziende di Intelligenza artificiale. E c’è già la fila di giovanissimi talenti ansiosi di poter lavorare al fianco di capi così prestigiosi. Almeno sulla carta, il progetto si presenta come un capovolgimento del trend storico di espansione statale inaugurato poco meno di un secolo fa da Franklyn Delano Roosevelt. Quando, per fronteggiare la Grande Crisi figlia del crollo di Wall Street, mise in piedi una rete di agenzie che diventarono il braccio operativo del Presidente nell’economia. A ben vedere, a lasciare perplessi sul successo del progetto di Musk non è solo la reazione furiosa di decine di migliaia di dipendenti che verrebbero licenziati, ma il fatto che Trump amputerebbe la sua stessa capacità di gestione. È probabile che, dopo una ben orchestrata batteria di proclami, l’impeto dell’assalto si stemperi in molti rivoli di esito incerto.
La partita decisiva e più aspra rimarrà quindi quella dei dazi. Riflette più da vicino la visione e gli interessi di Trump, e della cerchia molto ampia di imprenditori che hanno finanziato la campagna del presidente dietro esplicite promesse di avere un tornaconto per le proprie aziende. E non vi è dubbio che si vedranno subito alcuni provvedimenti protezionisti che potrebbero segnare una svolta sulla scena internazionale. Ma è improbabile che l’entità, l’ampiezza e la durata siano quelle di cui si è parlato durante i comizi. Innanzitutto per la ragione politica che Trump preferisce dosare i dazi in trattative bilaterali, evitando di creare un fronte unito dei destinatari e riservandosi così il tiraemolla di una contrattazione continua.
Ma anche – e soprattutto – per la diffusa consapevolezza che i dazi, a lungo andare, finirebbero col pregiudicare la salute della stessa economia americana. Sia per fattori contingenti, come il rafforzamento del dollaro, che favorirebbe le stesse importazioni che i dazi si propongono di limitare. Sia per quelli strategici, già sperimentati ciclicamente in situazioni analoghe. Si sa che, nell’immediato, le alte tariffe puniscono chi le subisce. Ma, alla lunga, stimolano ad abbassare i costi attraverso maggiore produttività e innovazione. Forse l’Europa è troppo disunita per riuscire a reagire aumentando gli investimenti in questa direzione. Ma la Cina ha tutti gli strumenti – politici e tecnologici – per rispondere all’aumento dei dazi accelerando sulle proprie performance.
Col risultato che l’America si ritroverebbe ad avere messo in ginocchio il proprio alleato storico, spingendo al tempo stesso il suo più temibile avversario a diventare ancora più forte. Davvero è quello che Trump vuole? Nella sua precedente esperienza alla Casa Bianca, Trump ha dimostrato di essere molto più radicale a parole, che nei fatti. Forse stavolta sarà diverso. O forse no.
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