Di fronte alla recente tragedia di uno studente universitario a Padova, ci troviamo di nuovo a chiederci cosa possiamo fare, come individui e come comunità, per fermare questo doloroso senso di solitudine che a volte sembra travolgere chi ci sta accanto, silenziosamente. La perdita di una giovane vita è una ferita che va oltre le mura di una residenza o di un’aula universitaria: è una ferita che attraversa tutti noi, come se un pezzo della nostra collettività si fosse spezzato. In ogni essere umano esiste una parte vulnerabile, fragile e spesso nascosta, che ci rende più simili di quanto immaginiamo. Esistono giorni bui per ciascuno di noi, giorni in cui l’orizzonte sembra
restringersi, e tutto appare opprimente. Ma è proprio in quei momenti che il dolore non dovrebbe diventare un muro che isola, bensì un ponte che ci collega a chi è pronto ad ascoltarci. Non dobbiamo dimenticare che nessuno è immune dal dolore e che il disagio emotivo non è mai un segno di debolezza. Se qualcuno che conosciamo, che vediamo ogni giorno o che incrociamo soltanto per qualche istante ha bisogno di essere ascoltato, accolto, anche solo con uno sguardo, un piccolo gesto, abbiamo la possibilità di fare una differenza profonda. Scegliere di avvicinarci e offrire un sostegno, anche minimo, è un gesto che va oltre la parola: è un modo di dire “Non sei solo”.
Questa tragedia ci invita a ripensare al nostro ruolo all’interno della comunità, specialmente in spazi dove giovani e studenti si trovano a convivere con le sfide e le incertezze del loro percorso di crescita. Appartenere significa essere riconosciuti, accettati, anche nella fragilità. Ogni studente, ogni giovane, dovrebbe sentire di poter contare su uno spazio sicuro, su persone che sanno vedere oltre l’apparenza.
Nessuno dovrebbe sentirsi giudicato, mai. Dovremmo impegnarci, come comunità, a dare valore ai momenti di difficoltà come occasioni di connessione e non di isolamento. A volte, chi soffre non ha bisogno di risposte, ma di poter condividere la propria esperienza senza timore di essere frainteso o minimizzato. Essere parte della comunità significa essere quel sostegno, essere la persona che ascolta, che osserva e che accoglie senza chiedere nulla in cambio. Per chiunque stia leggendo e si trovi in un momento difficile: sappiate che il vostro dolore non è la fine della storia. Ci sono persone che ci tengono davvero. Siamo in tanti, tutti diversi, tutti con
momenti bui, tutti con fragilità e timori che a volte sembrano insormontabili. Ma proprio per questo motivo, siamo anche in grado di capire e di tendere la mano, quando e dove serve. Per ogni persona che si sente persa, che si sente sola, il messaggio che dovrebbe arrivare forte e chiaro è che il dolore può essere condiviso, che ci sono persone pronte ad accogliere, ad ascoltare, ad esserci anche nei momenti più duri. Non siete soli.
Dobbiamo tutti imparare a essere più attenti, più sensibili e più aperti agli altri. Il senso di comunità non si costruisce solo con i rapporti di amicizia o con la vicinanza fisica, ma con la capacità di riconoscere la dignità del dolore altrui e di abbracciare la fragilità come parte della vita. Questa tragedia ci lascia una lezione: il modo migliore per onorare chi non è più qui è costruire un mondo in cui ciascuno si senta parte di qualcosa, in cui nessuno debba portare da solo il peso delle proprie difficoltà. Impariamo ad essere lì, presenti, anche quando il dolore non è visibile, anche quando non capiamo pienamente. Perché a volte, la sola presenza fa una differenza incommensurabile.
Federico Barzan è psicologo clinico, psicoterapeuta i.f., e esperto di salute mentale. Lavora come psicologo libero professionista nei miei studi di Padova e Treviso o online, a stretto contatto con genitori e giovani adulti e in un progetto in carico al Dipartimento di Salute Mentale dell’Ulss 2, dove collabora con psichiatri, assistenti sociali, infermieri ed educatori dei Centri di Salute Mentale territoriali. Nella sua “stanza delle parole”, aiuto i miei pazienti a superare fobie, ansia, depressione, difficoltà relazionali e a gestire le emozioni. Il suo approccio si basa sulla creazione di un ambiente confortevole e non giudicante, dove sentirsi accolti e liberi di esprimersi senza limitazioni.
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