Un ritornello che si sente durante tutta la Cop (e durante tutte le cop) è questo: “Il nostro paese ha contribuito in maniera minima alle emissioni di gas clima-alteranti, eppure ne sta pagando le conseguenze maggiori”. Questa è una classica frase di condanna che si sente pronunciare dai rappresentanti di paesi del sud globale o da paesi che fanno parte dei piccoli stati insulari, che effettivamente non solo non hanno contribuito in modo sostanziale alle emissioni, non solo sono colpiti da conseguenze dell’aumento delle temperature molto più violente (come gli uragani o l’innalzamento del livello del mare) ma sono anche anche i meno equipaggiati per affrontarle. Che si tratti del presidente delle isole Tuvalu, che stanno letteralmente andando a fondo, o del Nepal, i cui cittadini sono straziati da eventi estremi come le esplosioni dei laghi glaciali sempre più frequentemente, le richieste, da anni, se non da decenni, rimangono le stesse: “Voi paesi che siete responsabili della fetta maggiore di emissioni di gas serra, agite e salvate il nostro futuro”.
Ora, c’è una parte dell’azione per il clima che si focalizza proprio su questo concetto qui, sul fatto che gli impatti del cambiamento climatico sulle persone vulnerabili e già svantaggiate è maggiore, e si chiama giustizia climatica. Attivarsi e agire per la giustizia climatica vuol dire dare voce a queste comunità più svantaggiate, che spesso non hanno le risorse per farlo per sé stesse, e cercare soluzioni che affrontino le cause profonde del cambiamento climatico e, così facendo, affrontino contemporaneamente un’ampia gamma di ingiustizie sociali e ambientali.
La giustizia climatica ha diversi aspetti e affronta diverse tipologie di disuguaglianze. Una è quella strutturale, per la quale all’interno di uno stesso paese gli impatti dei cambiamenti climatici possono essere avvertiti in modo diseguale a causa di diseguaglianze strutturali (come le persone con disabilità, che son meno in grado di adattarsi a cambiamenti repentini, le popolazioni indigene, che vedono i loro mezzi di sussistenza messi continuamente in pericolo, o le donne).
Esistono poi disuguaglianze socio-economiche, perchè gli impatti dei cambiamenti climatici e le risorse necessarie per affrontarli sono distribuiti in modo diseguale nel mondo: i Paesi a basso reddito e le popolazioni vulnerabili all’interno di questi Paesi sono più suscettibili alle perdite e ai danni indotti dal clima. A livello globale, il 10% delle famiglie con le emissioni pro capite più elevate contribuisce al 34-45% delle emissioni globali di gas serra delle famiglie, mentre il 50% inferiore contribuisce al 13-15%.
E infine non possiamo non parlare di disuguaglianza intergenerazionale: i bambini e i giovani di oggi non hanno contribuito alla crisi climatica in modo significativo, ma sopporteranno la piena forza degli impatti del cambiamento climatico man mano che andranno avanti nella vita. E proprio perché i loro diritti umani sono minacciati dalle decisioni delle generazioni precedenti, devono essere al centro di tutti i processi decisionali e delle azioni sul clima. L’anno scorso, Cop28, è stata la prima Cop con una giornata interamente dedicata ai bambini.
Dal mondo della ricerca arrivano continuamente conferme dell’esistenza (e, purtroppo, anche del peggioramento) di queste disuguaglianze, e proprio pochi giorni fa è stato pubblicato su Nature un articolo che valuta la disparità negli impatti ambientali dei diversi paesi del pianeta e lo fa riferendosi al concetto di limite planetario. I limiti planetari (ripassiamo) sono un concetto scientifico che identifica i confini entro cui le attività umane possono operare in sicurezza, senza compromettere la stabilità e la resilienza del sistema Terra. Introdotti nel 2009 definiscono nove processi chiave, come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, e l’acidificazione degli oceani, fondamentali per mantenere l’equilibrio del pianeta.
Ecco, la ricerca realizzata da questo team internazionale dimostra che la maggior parte della responsabilità della violazione del limite planetario può essere attribuita rispettivamente al 20% dei consumatori globali, sia dei Paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo. Si tratta di risultati che confirmano una consapevolezza che già avevamo raggiunto da tempo, e che emerge fortemente ad esempio nei rapporti di Oxfam (di cui abbiamo parlato qui): la piccola percentuale delle persone con uno stile di vita più ad alto consumo (e quindi delle persone più ricche) è più impattante sul pianeta di tutte le rimanenti.
La giustizia climatica mira a garantire che i Paesi più vulnerabili, spesso i meno responsabili delle emissioni globali, ricevano il supporto necessario per affrontare gli impatti del cambiamento climatico. In questa Cop grande enfasi è posta sulla finanza climatica, con i negoziati che procedono, giorno dopo giorno, sul “New Collective Quantified Goal”, un nuovo obiettivo di finanziamento che supererà i precedenti impegni di 100 miliardi di dollari annui, considerando il fabbisogno stimato di 2.400 miliardi di dollari per rispettare gli obiettivi climatici globali. E un altro elemento cruciale, in termini di giustizia climatica, è il fondo per perdite e danni, introdotto due edizioni fa, a Sharm El Sheik, in Egitto, e ora in fase di concretizzazione, pensato per compensare i Paesi in via di sviluppo per i danni causati da eventi climatici estremi, ma il finanziamento necessario è ancora lontano dalle promesse attuali.
La giustizia climatica è anche al centro delle proteste degli attivisti presenti a Cop29 (che ieri sono stati costretti a manifestare in spazi molto contenuti e con il divieto di cantare, un’imposizione che ha generato scalpore e scontento nella comunità) che puntano il dito su tutte le contraddizioni alla base di questa conferenza, poco speranzosi in un risultato davvero positivo per la parte del globo che ne ha davvero bisogno.
“Ci sono momenti in cui l’accelerazione è possibile -. riflette davanti alle telecamere di Euronews l’attivista tedesca per il clima Luisa Neubauer, che ha svolto un ruolo di primo piano nell’organizzazione del movimento Fridays for Future nel 2018 -. Quando abbiamo raggiunto punti di svolta sociali, e ci sono momenti come questi, dove è più difficile vedere la speranza, dove è più facile cadere nel cinismo”. “Siamo a un bivio. E l’industria dei combustibili fossili lo sa bene. E quindi stanno portando la cavalleria in questo luogo – spiega -. Quindi, se noi attivisti non ci presentiamo qui, diamo ancora più spazio a questi lobbisti e ai loro governi amici”.
Nonostante il 1,5°C si stia allontanando, Neubauer sottolinea che l’obiettivo è molto più di una semplice linea di temperatura: “È una promessa che noi, come comunità globale, facciamo al mondo, al futuro e alle persone più vulnerabili del mondo. E questa promessa dice: stiamo guardando, ci stiamo preoccupando e stiamo dando tutto quello che possiamo. E stiamo lottando per ogni centigrado per cui possiamo lottare. E questa promessa è ben viva. E queste sale ne sono una testimonianza, perché la gente si presenta anche nei momenti più bui”.
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