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“Giurato numero 2”, Clint Eastwood riflette sui concetti di verità e giustizia


Titolo: Giurato numero 2

Titolo originale: Juror #2

Regia: Clint Eastwood

Paese di produzione / anno / durata: Stati Uniti / 2024 / 114 min.

Sceneggiatura: Jonathan A. Abramas

Fotografia: Yves Bélanger

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

Carta di credito con fido

Procedura celere

Montaggio: David S. Cox, Joel Cox

Suono: Mark Mancina

Cast: Nicholas Hoult, Toni Collette, J.K. Simmons, Chris Messina, Gabriel Basso, Zoey Deutch, Cedric Yarbrough, Leslie Bibb, Kiefer Sutherland, Amy Aquino, Adrienne C. Moore.

Produzione: Dichotomy Films, Gotham Group, Lightnin’ Production Rentals, Malpaso Productions, Warner Bros.

Distribuzione: Warner Bros Italia

Programmazione: Conca Verde Bergamo, UCI Cinemas Orio, UCI Cinemas Curno, Arcadia Stezzano, Starplex Romano di Lombardia, Treviglio Anteo SpazioCinema, Garden Clusone

Una comunità è fatta da singoli, da persone non perfette e perfettibili, che vivono nel proprio individualismo e in questo si rispecchiano, anche se nel mezzo di un giudizio nei confronti di un presunto omicida. Riflette sulla giustizia americana, sul suo sistema imperfetto, ma anche sul concetto di comunità Clint Eastwood nel suo “Giurato numero 2”, al cinema dal 14 novembre.

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Una riflessione che guarda inevitabilmente alla società americana e, per farlo, prende come punto di partenza il dramma privato di un singolo. Protagonista è un giovane padre di famiglia, Justin Kemp (uno splendido Nicholas Hoult) che viene convocato con un mandato da giurato (il “giurato numero 2” del titolo) in un processo per omicidio: un dovere civico che il protagonista vuole assolvere velocemente, vista la gravidanza avanzata della moglie (Zoey Deutch). L’accusato è il violento James Sythe (Gabriel Basso), ex membro di una gang criminale, incriminato per aver ucciso la fidanzata Kendall Carter (Francesca Eastwood) dopo un acceso diverbio in un bar. Nello stesso locale, quella sera, si era fermato proprio Kemp, in uno dei suoi momenti solitari nella lotta all’alcolismo. Nel rientrare a casa, sotto la pioggia battente, il protagonista sente un colpo improvviso all’auto: convinto di aver investito un cervo, non si preoccupa molto dell’accaduto. Viste le identiche circostanze dell’omicidio, però, Kemp inizia ad avere dubbi su chi o cosa possa effettivamente aver investito. Un pensiero che gli entra in testa e lo dilania internamente, mentre tutti gli altri giurati, così pure la procuratrice distrettuale Faith Killebrew (Toni Colette), vedono chiara la risoluzione del caso, volendo condannare il violento James e tornando il più velocemente possibile alle proprie famiglie e occupazioni.

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Clint Eastwood, 94 anni, firma la regia di questo dramma giudiziario che, nello scorrere limpido di un cinema classico, trova un minimalismo intenso che porta a riflettere sui concetti di verità e giustizia nella società. Una riflessione che guarda in particolare alla giustizia americana, ad un sistema legale imperfetto (“non sarà il perfetto, ma è il migliore che abbiamo”), in cui la verità sembra allontanarsi dal concetto di giustizia, venendo soppiantata da motivazioni, preconcetti ed opportunità. Le immagini patriottiche di inizio pellicola, unite ad una prima inquadratura della dea della giustizia, con bilancia in mano, spada e benda sugli occhi, sono specchio di un idealismo della società americana che si infrange però nell’individualismo e nell’indifferenza. Tutti i giurati, descritti in maniera perfetta sia per quanto riguarda la sceneggiatura che l’interpretazione dei singoli, portano con sé un idealismo di fondo che collide però con le esigenze personali. Un confronto tra privato e comunità (come in molto cinema di Eastwood) che traccia uno sguardo di indifferenza, uno sguardo che non si occupa più di indagare, ma di guardare solo al proprio tornaconto ed all’evidenza, anche se questo significa incarcerare un uomo potenzialmente innocente. Il primo sguardo, la soluzione più semplice, sono quelli che accecano, di fatto, anche polizia e la procuratrice distrettuale Faith (nomen omen), più impegnata nella campagna elettorale (in cui uno dei punti chiave è, per l’appunto, la violenza sulle donne) che nello svolgimento del proprio lavoro. Una leggerezza che non sottintende una colpa, ma che inevitabilmente pone un importante punto di riflessione sulla giustizia, dea bendata che in questo caso sembra credere ciecamente all’ovvio. Sempre più attento e disperato è invece lo sguardo di Justin Kemp, uno sguardo e una mente che giungono a soluzione (o quantomeno a tragico dubbio), sottolineati dai lenti e misurati primi piani girati da Eastwood.

Primi piani che sottintendono un dilemma morale personale, al quale nessuno sembra dare corda. Un dilemma morale tratteggiato da una fotografia trasparente, quasi didascalica, che sembra fare da contrappunto alla cecità dei giurati. Una trasparenza che non significa però ovvietà, attraverso uno sguardo profondo che scava nell’umano, nella scelta del singolo tra verità ed opportunità, soprattutto verso un’opportunità che metterebbe d’accordo tutti. In un film giudiziario girato quasi esclusivamente in interni, Eastwood traccia anche un confronto tra campo e fuoricampo, tra il visibile e il non-visibile, uno sguardo onesto che prende in causa la società per farne insieme di singolarità, di individui che dovrebbero smettere di specchiarsi in loro stessi, togliersi la benda dagli occhi ed osservare la realtà per trarne l’autentica verità, per migliorare una società nella quale la falsificazione e la semplificazione sembrano ormai avere il predominio.

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