Sette punti della legge Calderoli sono incostituzionali. E altri cinque vanno letti in modo «costituzionalmente orientato». La Corte costituzionale con la decisione presa ieri smonta in gran parte l’impianto attuativo dell’autonomia differenziata, senza però cancellarlo del tutto, accogliendo quindi parzialmente i ricorsi di quattro Regioni: Campania, Puglia, Toscana e Sardegna. Dopo i dodici interventi, quel che resta della Calderoli diventa inapplicabile per cui, spiega la Corte, spetta al Parlamento «colmare i vuoti» e nel frattempo, è lecito prevedere, cade il referendum abrogativo della legge Calderoli perché non avrebbe senso la consultazione popolare su una norma che tocca a Camera e Senato riscrivere.
La sentenza non è stata ancora depositata tuttavia il comunicato stampa permette di comprendere il senso generale e molti dettagli della decisione presa dall’organismo presieduto da Augusto Barbera, con relatore Giovanni Petruzzelli e un ruolo attivo di Luca Antonini, il quale nella seduta pubblica del 12 novembre ha posto domande agli avvocati intervenuti a sostegno delle tesi della Campania (Francesco Marone), della Puglia (Massimo Luciani) e del Veneto (Andrea Giovanardi).
I paletti della Corte Costituzionale
Le Consulta con la sua sentenza impone una lettura in linea con la Costituzione di cinque passi della legge. Il principale dà un ruolo centrale al Parlamento, che non si deve limitare alla mera approvazione dell’intesa che concede maggiori poteri a una Regione (formula prendere o lasciare) ma può emendare il testo e in tale caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata. Doccia fredda per le Regioni richiedenti (al momento Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria) anche sulle somme da trasferire, che non si devono basare sulla spesa storica ma sull’efficienza, quindi obbligando a un risparmio, mantenendo in ogni caso allo Stato risorse sufficienti per coprire le proprie spese. In altre parole la Corte chiede di evitare duplicazioni di costi e impone che si tenga conto della situazione della finanza pubblica, del ciclo economico e degli obblighi comunitari. C’è una puntualizzazione anche sulla divisione fra materie Lep e non Lep, una delle novità della legge Calderoli: i trasferimenti di funzioni non possono toccare prestazioni relative a diritti civili e sociali. Per esempio la Protezione civile è materia non Lep tuttavia la sua organizzazione permette di garantire diritti sociali.
I commi cassati
In sette casi la Corte costituzionale interviene con le forbici e taglia delle parti della legge 86/2024. Il primo intervento può apparire formale ma va alla sostanza: la devoluzione, scrive la Corte, non può riguardare come è scritto nella Calderoli «materie o ambiti di materie», perché le materie sono codificate nella Costituzione come statali o concorrenti Stato-Regione e nessuna intesa può modificare surrettiziamente la Carta. Quindi la Regione non può chiedere l’Istruzione, o il Commercio con l’estero e così via ma solo «specifiche funzioni legislative e amministrative», giustificando caso per caso i perché e i vantaggi per tutti della richiesta. «I Giudici – si legge nel documento diffuso ieri – ritengono che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione». Il principio di sussidiarietà.
Con tre colpi di forbici, si smonta il meccanismo messo in piedi per definire finalmente i livelli essenziali delle prestazioni, una delle incompiute (dal 2001) dell’attuazione della Carta. I giudici costituzionali contestano sia la delega al governo troppo generica (mancano «criteri direttivi») sia la scorciatoia dei Dpcm che appare in diversi passi della Calderoli. Il lavoro del Comitato Lep presieduto da Sabino Cassese, in tale quadro, si ridimensiona a una mera ricognizione delle opzioni possibili. I compiti del Clep dovrebbero concludersi con la seduta plenaria in calendario per il 12 dicembre.
Non poteva mancare da parte della Corte un faro sulla delicata questione finanziaria. La Calderoli prevede come finanziamento l’assegnazione a ciascuna Regione di una quota di un tributo nazionale, per esempio il 10% l’Iva. Tale percentuale però può salire o scendere in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento del gettito. In pratica più si spende, più cresce nel tempo la percentuale da trattenere. Un modo, bacchetta la Consulta, per premiare «proprio le regioni inefficienti».
Sempre sul fronte finanziario, la Corte costituzionale trova inammissibile la formula usata all’articolo 9 della legge Calderoli, quando si fa riferimento alla «possibilità di prevedere, anche per le Regioni che hanno sottoscritto le intese, il concorso agli obiettivi di finanza pubblica». La possibilità? – sembrano chiedere i magistrati della Consulta – semmai la doverosità: i vincoli di solidarietà e unità della Repubblica non possono essere facoltativi.
Infine la Corte costituzionale ha accolto la parte del ricorso della Sardegna a tutela della propria specificità. La Calderoli infatti nelle disposizioni transitorie prevedeva che la legge si applicasse anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Bolzano e Trento. Una assurdità, secondo la Consulta, perché per ottenere maggiori forme di autonomia le Regioni speciali hanno specifiche procedure previste dai rispettivi statuti, i quali hanno il rango di leggi costituzionali.
Il referendum
Se la Corte costituzionale avesse cancellato singole parti della legge Calderoli ma preservandone l’impianto, il referendum per l’abrogazione totale chiesto la scorsa estate da 1,2 milioni di italiani avrebbe avuto chance di ammissibilità. Ma è la stessa Corte a definire il testo rimanente come monco, al punto da invitare il Parlamento, se intenderà nella sua discrezionalità rilanciare il percorso per l’autonomia differenziata, assicurare la piena funzionalità della legge. Il comunicato della Corte costituzionale non dice nulla in merito al referendum ma è opinione prevalente tra i giuristi che sarebbe insensato chiamare gli italiani a votare sì o no. Per cui già la Cassazione, il cui compito è verificare la validità delle firme, potrebbe dichiarare decaduto il quesito.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link