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Alla censura gli attivisti rispondono «mugugnando»


Nelle proteste, da che mondo e mondo, si grida. Ma se ti trovi alla COP29 di Baku, al massimo, puoi mugugnare. È questa la sintesi della giornata di ieri al summit sul clima delle Nazioni unite in corso in Azerbaigian. Teoricamente giorno dedicato a scienza e innovazione, in realtà il momento delle proteste – e della censura.

I MOVIMENTI per il clima e la giustizia sociale sono arrivati a questo vertice sfiancati. Tre COP di seguito in paesi autoritari e legati mani e piedi ai combustibili fossili – prima era stata la volta di Egitto ed Emirati Arabi Uniti; una livello di repressione sempre crescente anche in Occidente – tanto che pochi mesi fa l’Europa era stata bacchettata dal relatore speciale sui difensori ambientali dell’Onu Michel Forst. Eppure, anche se decimati, gli attivisti sono venuti. Protestare in città non è nemmeno un’ipotesi: l’Azerbaigian non è il paese adatto. Ma la sede fisica della COP, i padiglioni allestiti attorno allo stadio cittadino, sono provvisoriamente territorio extranazionale. A sorvegliarli non c’è la polizia azera, ma le forze dell’ordine delle Nazioni unite – la versione civile dei più celebri caschi blu. Per questo, dentro il vertice, lo spazio per le proteste dovrebbe essere garantito. Almeno in teoria.

NEL CORSO della settimana si erano iniziate a vedere le prime proteste: per la Palestina, contro il fossile, per i risarcimenti climatici. Due giorni fa un enorme serpente nero di carta e legno era stato fatto sfilare tra i corridoi del vertice. Gli attivisti – tutti rigorosamente accreditati come osservatori, unico modo a disposizione della società civile per partecipare – lo hanno usato per rappresentare i paesi del Nord globale, responsabili della gran parte delle emissioni cumulate eppure restii ad aprire i cordoni della borsa e mettere sul piatto i soldi necessari per la transizione nel mondo cosiddetto in via di sviluppo. «Weed out the snakes», estirpiamo i serpenti, era lo slogan un po’ punk. Ieri doveva essere il culmine, con un grande corteo pronto a sfilare tra gli edifici della Conferenza. Ed invece, ecco lo stop. «Ci hanno detto che non potevamo fare rumore vicino alle sale dove lavorano i diplomatici» ci spiega un’attivista europea «e fare rumore, come dire, è proprio il fulcro di una protesta».

A DECIDERE cosa può e non può succedere è il Secrétariat, la dirigenza della Convenzione quadro delle Nazioni unite sul contrasto ai cambiamenti climatici. Di fatto, la struttura Onu che organizza l’intero processo negoziale. Non è la prima volta che succede. Anche l’anno scorso a Dubai – altra capitale non avvezza ai cortei oceanici – sui militanti presenti si abbatté il tentativo di silenziamento, anche se in forma burocratica come tutto ciò che riguarda le Nazioni unite. In quel caso il centro dello scontro fu la Palestina: agli attivisti fu vietato di usarne la bandiera. Loro, in risposta, stamparono immagini di angurie – frutto simbolo della causa palestinese – e coccarde coi colori panarabi. «Sono anche i colori degli Emirati in fondo, no?» ci disse ironica un’attivista all’epoca.

ANCHE QUEST’ANNO i movimenti hanno trovato il loro escamotage: invece di cantare cori di protesta, li hanno mugugnati. Con le labbra chiuse e schioccando le dita hanno intonato melodie riconoscibilissime per chiunque abbia frequentato le piazze per il clima – da «keep it in the ground», mantenete sotto terra i fossili, all’universale «people have the power». Regole formali rispettate, ma l’effetto è, paradossalmente, amplificato. Se l’obiettivo era togliere visibilità, è successo l’opposto. Tra i padiglioni di COP29 – e tra gli oltre 3.000 giornalisti da tutto il mondo presenti – la censura degli attivisti è stata il caso del giorno. E i cori semi-muti hanno dato visibilità alle richieste portate su manifesti e striscioni: interruzione di ogni nuova attività estrattiva, stanziamento dei fondi necessari per il Sud globale, condono del debito per i paesi in difficoltà, embargo energetico su Israele. Certo, rimane la sensazione di una fase calante della mobilitazione. Alla COP26 del 2021 di Glasgow oltre 150.000 persone avevano sfilato per le strade della città scozzese. Quei numeri e quell’atmosfera sono un ricordo lontano, di fronte ai mugugni di Baku.



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