Lo sguardo di una bambina dello Sri Lanka, che a 6 anni raggiunge i genitori immigrati in Italia, dove ha praticato tanti sport. La pratica sportiva del passato, oggi le consente di analizzare le questioni razziali e di genere. Il corpo delle sportive di pelle nera e il proprio, come chiave di lettura politica. Quanto conta l’origine di classe e il colore della pelle nell’accesso allo sport? Quanto è radicato il razzismo sulle piste di atletica e sui campi da tennis? Perché tra la gente lo ius sportivo ha guadagnato più spazio rispetto allo ius soli? C’è ancora spazio nello sport per il dissenso e la lotta non violenta?
A queste domande risponde Nadeesha Uyangoda, scrittrice italofona nata a Colombo (Sri Lanka) che condensa le sue riflessioni in Corpi che contano ( 66thand2nd), libro che nell’ambito di BookCity sarà presentato oggi al Teatro Franco Parenti di Milano alle 15.30 e il 1 dicembre al Festival Dipassaggio a Genova (libreria Coop, Porto Antico ore 11).
Perché hai scritto questo libro?
Desideravo analizzare lo sport da un punto di vista razziale e di genere. Il tema del corpo si presta a una lettura sociale e politica, perciò sono partita dalla mia biografia e dal mio corpo, ho praticato pallavolo, tennis, nuoto, pattinaggio, sci, danza. Il modo in cui un corpo fa esperienza del mondo e di sé è legato alle possibilità che in larga misura dipendono dalla razza, dal genere, dalla nazionalità, dalla classe e anche dalla casualità. L’origine di classe è una questione centrale quando si parla di corpi in relazione al tempo libero, al gioco e allo sport.
Nello sport c’è spazio per il dissenso?
Se l’establishment ti riconosce parte del gruppo, in virtù dei meriti sportivi, non c’ è spazio per il dissenso, soprattutto quando arrivi ai vertici dello sport da categorie marginalizzate, come i figli di immigrati nati altrove e di pelle nera come me, perché lo sport si racconta sacro e puro, il dissenso sporca la purezza. Gli eroi sportivi devono comportarsi da eroi, essere grati alla nazione.
Il nazionalismo ha utilizzato lo sport per alimentare il razzismo?
La politica nazionalista, che si è alimentata in questi anni, si è insediata nello sport. È stato anche un modo per avvicinare i giovani alla politica attraverso la pratica sportiva, questo intreccio è avvenuto in Europa, come pure nell’estremo Oriente.
Le geografie sportive e le tendenze politiche coincidono?
In Italia si continua a insistere sull’identità razziale, vi è un senso di patriottismo molto forte, inteso come rappresentanza del proprio Paese, che a volte sfocia nel nazionalismo. Le geografie sportive sono fatte da persone che arrivano da altri paesi, sono di origine indiana, nordafricana, ma in Italia il riconoscimento tra pratica sportiva e cittadinanza non coincide. Si vuole lo sport allineato alla gloria della patria, invece le persone di seconda generazione fanno parte a tutti gli effetti del corpo sportivo italiano.
Lo sport può essere terreno di lotta non violenta?
In passato nel sub continente indiano il cricket è stato terreno fertile per la nascita di movimenti non violenti, per l’indipendenza, la liberazione dal giogo del colonialismo, i colonizzati hanno combattuto contro i colonizzatori anche attraverso il cricket. Oggi l’idea dello sport inteso come una competizione tra Stati non è più accettabile. Lo sport ha smesso di essere terreno di lotta politica, invece, può esserlo per gli aborigeni, gli indigeni, perché attraverso lo sport possono sensibilizzare l’opinione pubblica per avere un riconoscimento identitario e politico. Oltre certi confini, però, lo sport non consente di andare perché deve mantenersi «puro» non vuole essere contaminato da questioni politiche. Un gesto come quello di Tommie Smith alle olimpiadi di Mexico ‘68 non è più possibile. Alle olimpiadi di Parigi c’è stato il caso della pugile Angela Carini alla quale si chiedeva di non combattere contro l’algerina Imane Khelif, ma tutto è finito lì, non vi sono stati gesti eclatanti.
Sport e gender è un connubio inevitabile?
Alcuni sport sono nati per gli uomini, per le persone ricche, bianche, per molto tempo hanno incanalato talenti di questo genere. È stato difficile per le persone che non appartenevano a quelle identità riuscire a partecipare alle pratiche sportive. Pensiamo al tennis, al nuoto, al ciclismo, a lungo praticato da ricchi occidentali, altri corpi non hanno avuto la possibilità di accedere a questi spazi sportivi. Mia madre ha sempre lavorato, ha sollevato corpi, ma non ha mai fatto sport. Alle questioni storiche si sono aggiunti razzismi, credenze religiose e altri aspetti che hanno contribuito a mantenere lo sport diviso per genere e classe.
Sostieni che nello sport il corpo femminile diventa corpo di altri.
Il corpo sportivo di una donna è sempre sessualizzato dentro canoni prestabiliti dallo sguardo maschile. I corpi muscolosi delle sorelle Williams nel tennis sono stati considerati animaleschi. C’è anche un linguaggio sportivo sessualizzato: il gluteo alto della pallavolista, il corpo interessante di una tennista. A me non è capitato di vivere situazioni sessualizzate, ma razziali. Quando andavo in piscina tutti mi guardavano, ero l’unica con la pelle nera, mi sentivo osservata, ancora oggi al mare mi guardano in quanto nera e donna. Sento il mio corpo come un ecomostro che tutti si fermano a guardare. Penso che anche i corpi delle sportive nere in Italia siano vissuti come corpi fuori luogo o sessualizzati, oppure come corpi di successo che si sono integrati, circondati da persone bianche.
Gli sport che hai praticato in Italia li hai vissuti come occidentali?
Sì, il passaggio dal cricket al nuoto ha sancito il movimento geografico dal sud del mondo verso l’Europa. Penso, però, che sia difficile rinchiudere lo sport entro confini geografici e di Stato. Il cricket nato in Inghilterra è stato portato dai colonizzatori nell’altra parte del mondo, poi è tornato di nuovo in Europa attraverso la pratica sportiva delle persone immigrate del subcontinente indiano.
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