Parla Giuseppe Sarcina, già corrispondente del Corriere della Sera negli Usa: “Ora l’ex tycoon deve passare dagli slogan ai fatti. Il primo segnale è la telefonata con Putin. In Medio Oriente, la mano libera lasciata a Netanyahu apre ad uno scontro frontale con l’Iran”
Gli Stati Uniti d’America sotto la lente d’ingrandimento del mondo. L’elezione del 47esimo presidente, Donald Trump, ha suscitato una serie di interrogativi sull’evoluzione della situazione nel mondo a partire dal prossimo 20 gennaio, quando l’ex tycoon e JD Vance presteranno giuramento a Capitol Hill. Nel corso della campagna elettorale, una delle tematiche più discusse è stata la dichiarazione di Trump che avrebbe le potenzialità di fermare i conflitti in un giorno. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sarcina, già corrispondente degli Stati Uniti per il Corriere della Sera, nel nuovo episodio del podcast Skill Pro.
Trump ha più volte sottolineato la volontà e la possibilità di porre fine ai conflitti in 24 ore. Cosa c’è di vero e in che modo potrebbe attuare questa strategia?
L’idea di Trump di porre fine alla guerra e 24 ore dovrà passare dalla fase degli slogan a quella concreta di attuazione, ma per il momento non si vede nulla. L’unico segnale registrato in questi giorni – anche se naturalmente è molto presto visti i lavori in corso per allestire la squadra – è stata la telefonata tra Trump e Putin, smentita prima dalla Russia ma accreditata poi da molti osservatori. Nel colloquio tra i due leader, il tycoon avrebbe chiesto al presidente russo di non procedere ulteriormente a un’escalation in Ucraina: una sorta di avviso per specificare cosa abbia fatto parte della campagna elettorale e cosa, invece, verrà eseguito dalla politica americana ad amministrazione insediata.
L’ipotesi avanzata fino ad oggi è quella di una resa sostanzialmente mascherata da pace, consentendo a Putin di mantenere i territori conquistati con la forza – in violazione del diritto internazionale – e stiamo parlando di circa il 20% della superficie del Paese. Secondo questa teoria, inoltre, l’Ucraina dovrebbe rinunciare ad aderire alla Nato e verrebbero costruite delle fasce demilitarizzate a ridosso del fronte con Kiev e dell’est. Queste ipotesi non sono state discusse né con Zelensky né con gli alleati europei, a cui secondo Trump spetterebbe poi l’onere di vigilare attivamente per mantenere l’ordine nel Paese.
Sulla situazione in Medio Oriente come potrebbe intervenire il neo-eletto presidente degli Stati Uniti?
Sul Medio Oriente c’è una contraddizione nell’atteggiamento di Trump: da una parte afferma di essere un pacificatore, una figura in grado di risolvere i conflitti o comunque di evitare che si allarghino; dall’altra ha detto che avrebbe lasciato mano libera a Netanyahu, consentendogli di “finire suo lavoro”. Questo però significherebbe sfociare nello scontro frontale con l’Iran e quindi non mi pare che sia questa la strada per arrivare a un contenimento della guerra.
I paesi arabi moderati sono in attesa di capire effettivamente dove voglia andare a parare Trump nei rapporti con la destra e il governo israeliani. Tutti avrebbero l’interesse a circoscrivere lo scontro, in primis l’Iran, ma è chiaro che per farlo bisogna rinunciare alla visione di Netanyahu secondo cui Teheran sia la matrice di tutta l’instabilità mediorientale.
È sicuramente un’America diversa rispetto al 2016, ma Trump ha – rispetto a Biden – rapporti diversi con i leader mondiali: per esempio con Erdogan in Turchia o con le Coree. Il mondo come ha reagito dinnanzi a queste elezioni?
In questo momento è un globo frammentato, quindi è difficile immaginare che ci sia un’unica reazione, perché gli interessi sono contrastanti. Prendiamo proprio il caso della Turchia, che con un piede aderisce alla Nato e con l’altro appoggia i Fratelli musulmani che a loro volta sono in conflitto con Israele. Diciamo quindi che è un gioco complesso e difficile da incasellare. Sugli altri fronti, tutti stanno aspettando le prime mosse concrete e il primo segnale non arriverà probabilmente su singoli scacchieri, ma più in generale su due direttrici: come verrà impostato il rapporto con la Cina, ovvero se sarà un rapporto di dialogo o, come annunciato, uno scontro commerciale visti i dazi previsti fino al 60 per cento su tutte le merci importate negli States.
Se così sarà, l’ipotesi che le tensioni commerciali possano tracimare in un confronto più generale è molto elevata. Se si incrinano ulteriormente i rapporti tra Cina e Stati Uniti peggiora anche tutto il quadro dell’area asiatica. Lo stesso discorso vale per il versante atlantico, cioè occorrerà capire come Trump gestirà l’amicizia con l’Unione europea: l’eventuale irrigidimento americano potrebbe portare a una difficile gestione della crisi ucraina e, a catena, sarebbe ancora più complicato confrontarsi per esempio con la Turchia o frenare le provocazioni della Corea del Nord.
Simone Massaccesi – Redattore
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