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Riceviamo e pubblichiamo queto contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Pubblichiamo più sotto due articoli usciti nei giorni scorsi su Counterpunch  riguardanti il movimento di lotta nelle università statunitensi. Precisiamo subito, a scanso di equivoci, che l’ideologia democratico-radicale e pacifista che li ispira non è la nostra; infatti, a differenza dei pubblicisti di Counterpunch, non ci meravigliamo affatto che la democrazia statunitense sia quella che è, e non possa essere altro da quella che è, dal momento che tanto in Israele e in tutto il mondo, quanto sul territorio degli Stati Uniti (il fronte interno), essa difende gli interessi del capitalismo imperialista di cui è il braccio politico armato. Gli articoli che abbiamo tradotto sono comunque utili come riassunto degli eventi principali e per gli spunti di analisi che offrono.

I fatti sono in pieno svolgimento, negli Stati Uniti e altrove nel mondo. Anche i commentatori più solidali e attenti sono all’inseguimento della cronaca. Questa è anche una nostra difficoltà, quindi questo è solo un primo contributo di inquadramento. Bisognerà seguire gli svolgimenti ulteriori di questo movimento di protesta, e guardare più a fondo all’interno di esso per coglierne le articolazioni e le contraddizioni.

È tuttavia palese l’importanza di questo movimento. È divampato nell’arco di un paio di settimane, come il fuoco nella prateria. Saranno nell’ordine di decine di migliaia i giovani coinvolti, a giudicare dai 2.100 arresti fatti. Dimostrando una comunione di intenti non sorprendente, ma davvero scoperta, il governo di “genocide Joe”, in piena sintonia con Netanyahu, che farnetica di folle antisemite, con i manager delle dozzine università coinvolte, e naturalmente con il buon Trump, ha senz’altro optato per la linea dura. La repressione violenta della protesta, che ha svuotato in un attimola retorica liberal-democratica, ed i calcoli politici, mostra che per l’establishment amerikano non ci sono, al momento, vie di mezzo. Parliamo degli Stati Uniti, ma lo stesso copione si è ripetuto in Francia. (Nonostante ciò, rimane legittima la domanda se esistano anche molto limitate frazioni della classe dominante che negli Stati Uniti, o in Europa, vedano un movimento del genere come utile, o almeno utilizzabile, ai propri interessi.)

L’articolo di Mazza si interroga sulle ragioni della repressione. Seguiamo questo spunto. È bene anzitutto toccare con mano l’ampiezza e rapidità di diffusione della protesta con un articolo di AljazeeraMapping pro Palestine Campus Protests around the World (3 maggio). Si vede così un aspetto che è sottotraccia nella cronaca: quella dei campus è solo l’ultima manifestazione in ordine di tempo di un’agitazione studentesca che data dall’indomani dell’aggressione israeliana contro i palestinesi dopo l’attacco del 7 ottobre scorso. È quanto emerge da un’intervista che dà voce all’agitazione alla Columbia – ‘I’ve never seen anything like this momentum before’: a Columbia student organizer on the Gaza Solidarity Encampment (M. Arria, in Mondoweiss, 24 aprile): in questa università epicentro del movimento, gli studenti sono stati protagonisti di un processo di radicalizzazione alimentato dai tentativi della amministrazione di soffocare la loro protesta, cominciata già ad inizio ottobre.

Inoltre, i riflettori sono puntati sulle università, e ancora più su quelle d’élite, ma a quanto pare l’ondata di proteste in corso non ha risparmiato le high schools. Al riguardo ha senso ricordare le agitazioni e sindacali dello scorso autunno per un cessate il fuoco, in particolare quella degli insegnanti (vedi anche i rinvii in fondo a questo pezzo di Labor Notes). Le attuali proteste universitarie non sono quindi una deflagrazione improvvisa. Sembrano indicare una ripresa delle mobilitazioni di massa dell’autunno scorso. Potrebbero inoltre avere, soprattutto in potenza, un collegamento con settori della società americana al di fuori dei campus.

Questo è il succo dell’articolo di Baroud, American Intifada – titolo emblematico, forse ottimistico, ma è questa la prospettiva in cui guardare alle cose; al momento viene in mente, in concreto, il movimento di contestazione elettorale anti-Biden degli uncommitted, cioè dei “non schierati”, i potenziali elettorali democratici che si sono rifiutati di votare per Biden alle primarie in diversi stati, nell’ordine delle centinaia di miglia – una contestazione che non accenna a rientrare.

Questi fatti di contesto possono spiegare la durezza della repressione degli studenti perché danno, anche agli occhi dell’establishment, uno spessore ancora maggiore ai punti di forza del movimento universitario evidenziati da Mazza e Baroud.

  • La determinazione dimostrata dagli studenti. La repressione non li ha piegati, ha alimentato la loro volontà di lottare. Se questo gioco di azione e reazione non può valere come principio generale, è però vero che, se vi è effettivamente un terreno fertile fuori dai campus, la repressione potrà rilevarsi un’arma spuntata;
  • La questione generazionale. In un leak del direttore della Anti-Defamation League si parla di un “problema generazionale di grandi dimensioni”. Il problema, per lui, è la crescente distanza, se non l’astio, delle giovani generazioni statunitensi verso il complesso militare-industriale, il sistema politico, lo Stato;
  • La forza delle parole d’ordine, che si riassumono in una denuncia vera del genocidio perpetrato dall’Occidente contro i palestinesi: porre fine agli investimenti delle università nelle imprese che lucrano sullo sterminio; più in generale, porre fine al sostegno statunitense ad Israele denunciando la complicità degli Stati Uniti nel massacro in corso, nonché la natura imperialistica, oltreché coloniale, del sionismo. Infine, ed è fondamentale, lo spirito della mobilitazione non è solo schiettamente umanitario. E’ militante, perché la solidarietà alla lotta di liberazione palestinese è tra le parole d’ordine che identificano il movimento. Ciò è spesso passato sotto-traccia anche dall’informazione che strizza l’occhio agli studenti.
  • Il protagonismo delle componenti anti-sioniste del mondo ebraico nord-americano (in alcune università fino al 15% dei giovani dimostranti era ebreo). E’ una confutazione tangibile della volgare identificazione tra antisionismo ed antisemitismo E’ una confutazione tangibile della volgare identificazione tra antisionismo ed antisemitismo [https://pungolorosso.com/2024/01/26/dossier-no-alla-memoria-a-senso-unico-1-introduzione/]. Priva di ogni residuo titolo di legittimità lo Stato di Israele, e il suo padrino a stelle e strisce. Denuda il re, per chi ha occhi per vederlo. “Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione della Palestina [corsivo nostro] – dicono dei giovani studenti ebrei – perché ci ispiriamo ai nostri antenati ebrei che hanno combattuto per la libertà 4.000 anni fa” – un richiamo che, così formulato, contiene tuttavia elementi ambivalenti.
  • La composizione “multi-etnica” del movimento, ossia la presenza, insieme ai bianchi, di studenti delle comunità nera, dei nativi americani e dei giovani arabo-musulmani. E’ un potenziale di critica e di lotta alla struttura insieme classista e razzista della società statunitense. E’ una replica, in piccolo, delle mobilitazioni contro la violenza razzista della polizia, la cui linfa vitale erano state la comunità afro-americana e le giovani generazioni.

Sono cose da approfondire, in particolare per quello che concerne le tendenze e le opzioni politiche presenti all’interno del movimento. Ad esempio questo documento di Palestine Action US, un gruppo molto attivo nella lotta contro la maggiore industria bellica israeliana, la Elbit Systems, al di là del modo approssimativo o talvolta velleitario (l’indicazione dell’escalation a prescindere da tutto il resto) con cui tratta i temi che indica, nomina alcune delle questioni essenziali che il movimento sarà chiamato a sciogliere nel suo ulteriore corso: la resistenza alla repressione poliziesca, l’apertura dei cancelli delle università, la costruzione di reti di militanza organizzata, la prospettiva rivoluzionaria e internazionale in cui inserire questa lotta, affinché non resti un “teatro” di “studenti burocrati”.

Scarica l’intervento di Palestine Action US.

La nostra ipotesi è che la protesta dei campus vada ricondotta ai molteplici processi di polarizzazione sociale, culturale e politica che stanno lacerando la società statunitense. In tempo di elezioni presidenziali, essa potrebbe contribuire a destabilizzare, a delegittimare ulteriormente il già traballante sistema politico, con una conseguente ulteriore radicalizzazione in senso anti-istituzionale. Un fattore rilevante di questo processo di radicalizzazione ed uscita del movimento dalle università potrebbe essere un impegno più convinto della rinascente militanza sindacale combattiva (con perno, al momento, sull’UAW) sul terreno della politica estera dell’imperialismo statunitense – nella recente affollatissima, e piena di entusiasmo, conferenza di Labor Notes c’è stato qualche segnale in questa direzione: molti interventi, e un meeting dedicato, hanno sottolineato “l’urgente necessità che i muscoli dei lavoratori sostengano la richiesta del cessate il fuoco” a Gaza, ma è ancora troppo poco.

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L’Intifada americana per Gaza: cosa dovremmo aspettarci?

Di Ramzy Baroud, 2 maggio

Le proteste di massa in dozzine di università statunitensi non possono essere ridotte a una soffocante e ingannevole conversazione sull’antisemitismo. Migliaia di studenti americani in tutto il Paese non stanno protestando rischiando il proprio futuro e la propria sicurezza a causa di un qualche odio patologico contro il popolo ebraico. Lo fanno nella prospettiva di un completo rigetto e una giustificabile indignazione nei confronti degli assassinii di massa perpetrati dallo stato di Israele contro i palestinesi indifesi di Gaza.

Sono arrabbiati perché il bagno di sangue nella Striscia di Gaza cominciato il 7 ottobre è pienamente supportato dal governo statunitense. Queste proteste di massa sono iniziate alla Columbia University il 17 aprile, prima di diffondersi su tutto il territorio statunitense da New York al Texas e dalla Carolina del Nord alla California.

Le proteste vengono comparate, sia per natura sia per intensità, a quelle contro la guerra del Vietnam negli anni ‘60 e ’70. Benché il paragone sia efficace, è di fondamentale importanza notare la diversità etnica e l’inclusività sociale che caratterizza le attuali proteste. In molti campus studenti arabi, musulmani, ebrei, neri, nativi americani e bianchi mostrano il proprio sostegno ai loro pari palestinesi in una presa di posizione compatta contro la guerra.

Nessuno di loro è motivato – come era invece vero nel caso di molti studenti americani durante l’epoca della guerra in Vietnam – dalla paura di poter essere coscritto per combattere a Gaza. Al contrario, essi sono raggruppati intorno a un insieme definito di priorità: porre fine alla guerra, porre fine al supporto statunitense a Israele, porre fine agli investimenti diretti in Israele da parte delle proprie università e riconoscimento del proprio diritto di protesta. Non si tratta di idealismo, ma di umanità nel senso più alto.

Nonostante gli arresti di massa, a partire da quelli avvenuti alla Columbia, e la violenza contro i dimostranti pacifici diffusa ormai ovunque, il movimento non ha fatto che rafforzarsi.

Dall’altro lato i politici statunitensi, a partire dal presidente Joe Biden, hanno accusato i manifestanti di antisemitismo, senza porsi in dialettica con alcuna delle loro ragionevoli richieste (peraltro supportate a livello globale).

Una volta ancora l’establishment Democratico e quello Repubblicano hanno fatto fronte unico nel loro cieco supporto a Israele.

Biden ha condannato le “proteste antisemite” descrivendole come “esecrabili e pericolose”.

Pochi giorni dopo, lo speaker della Camera Mike Johnson ha visitato l’università, blindata, per l’occasione, ed ha utilizzato un linguaggio che difficilmente può dirsi adeguato per una nazione che sostiene di abbracciare la democrazia, rispettare la libertà di espressione e il diritto di assemblea “Semplicemente non possiamo acconsentire a questo tipo di odio e antisemitismo di fiorire nelle nostre università”, ha detto, aggiungendo “ho raggiunto qui oggi i miei colleghi, ed esorto la Rettrice Shafik a dare le dimissioni se non sarà capace di riportare immediatamente ordine in questo caos”.

Shafik in ogni caso era già all’opera dal momento che è stata proprio lei a chiamare il dipartimento di polizia di New York per disperdere i dimostranti, accusandoli falsamente di antisemitismo.

La stampa mainstream statunitense ha aiutato nel contribuire a creare confusione e diffondere disinformazione riguardo le ragioni all’origine delle proteste.

Il Wall Street Journal ha concesso ancora a scrittori come Steven Stalinsky di infangare i giovani attivisti per la giustizia per aver osato criticare l’orrendo genocidio di Israele a Gaza. “Hamas, Hezbollah, gli Houti e altri stanno formando attivisti negli Stati Uniti e nell’Occidente” ha sostenuto costui, deviando quindi per l’ennesima volta una conversazione critica sul supporto statunitense al genocidio lungo direzioni bizzarre e non supportate dai fatti.

Gli scrittori dell’establishment statunitense possono desiderare di continuare a far fessi loro stessi e i propri lettori, ma la verità è che non ci sono “reclutatori” di Hezbollah o Hamas nelle università della Ivy League, dove i giovani sono spesso formati per diventare i leader nei governi e nelle grandi industrie.

Tutte queste mosse diversive hanno la finalità di evitare l’innegabile spostamento in atto nella società americana, che prefigura un cambiamento a lungo termine del paradigma con cui a livello popolare vengono inquadrate Israele e la Palestina.

Per anni prima di questa guerra, gli americani sono stati parte di un processo di cambiamento della propria opinione su Israele, e della cosiddetta “relazione speciale” tra il proprio paese e Tel Aviv. Questo trend ha visto in testa i giovani democratici, ma è individuabile altresì tra i giovani indipendenti e, fino a un certo punto, tra i giovani repubblicani.

Un’asserzione del tipo “le simpatie nel Medio Oriente sono più schierate ora con i palestinesi che con gli israeliani” sarebbe stata impensabile nel passato. Ora essa è la nuova norma, e gli ultimi sondaggi sul tema continuano ad attestare questo fatto, assieme al vacillare del tasso di approvazione di Biden.

Le vecchie generazioni di politici americani che hanno costruito e sostenuto carriere basate sul proprio supporto incondizionato per Israele sono travolti dalla nuova realtà. Il loro linguaggio è confuso e disseminato di falsità. Eppure costoro sono disposti ad arrivare fino al punto di diffamare una nuova generazione della loro gente – i futuri leader dell’America – per soddisfare le richieste del governo israeliano.

In una dichiarazione trasmessa in tv il 24 aprile, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha descritto i dimostranti come “folle antisemite” che “hanno occupato le università di punta”, sostenendo che i manifestanti pacifici stiano lanciando appelli “per la distruzione di Israele”. Le sue parole avrebbero dovuto scatenare l’ira di tutti gli americani, al di là della inclinazione politica e dell’ideologia di ciascuno. Invece i più e la maggioranza dei politici statunitensi hanno iniziato a ripetere le parole di Netanyahu come dei pappagalli.

Ma l’opportunismo politico genererà un rinculo, e non solo nel futuro distante ma nelle prossime settimane e mesi, soprattutto nella corsa alle elezioni presidenziali.

Milioni di americani sono evidentemente stufi della guerra, del supporto del proprio governo a un paese straniero, del militarismo, della violenza della polizia, delle restrizioni senza precedenti sulla libertà di parola negli Stati Uniti.

I giovani americani, che non sono legati con spirito di riconoscenza all’interesse personale o alle illusioni storiche e spirituali delle generazioni precedenti, stanno dichiarando: “quel che è troppo è troppo”. E fanno di più che intonare slogan, muoversi tutti insieme, pretendere risposte, il riconoscimento della responsabilità morale legale e la fine immediata la guerra.

Ora che il governo statunitense non ha preso alcuna iniziativa, e di fatto continua a foraggiare la macchina da guerra israeliana nella sua opera di massacro contro milioni di palestinesi, questi coraggiosi studenti stanno agendo in prima persona. Questo è certamente un movimento a cui guardare con rispetto e ammirazione, uno spartiacque nella storia degli Stati Uniti.

Ramzy Baroud è un giornalista ed è responsabile editoriale del The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. Il suo ultimo libro è: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” (Clarity Press, Atlanta). Il dr. Baroud è a Non-resident Senior Research Fellow presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali, Istanbul Zaim University (IZU). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net


Il disprezzo e la violenza contro le proteste a Gaza

dimostrano che stanno toccando un nervo scoperto

Di Patrick Mazza, 2 maggio 2024

A volte scoppia un incendio selvaggio e spazza via il paesaggio. Si raggiunge un punto di svolta. Un cambiamento di stato trasforma il ghiaccio solido in un torrente impetuoso. È quel che sta accadendo oggi.

Sono trascorse appena due settimane da quando gli studenti della Columbia University hanno allestito il primo accampamento di solidarietà con Gaza nel campus di New York il 17 aprile, e le proteste studentesche hanno investito decine di campus negli Stati Uniti e in altri Paesi.

Oggi sono stati occupati edifici nei campus da una costa all’altra, l’ultimo dei quali è la Hamilton Hall della Columbia, ribattezzata Hind’s Hall in onore di una bambina palestinese di 5 anni uccisa dalle forze israeliane a gennaio. Era stata ribattezzata Nat Turner Hall quando gli studenti che protestavano contro la guerra del Vietnam avevano occupato l’edificio nel 1968, durante un’ondata di proteste nel campus che è stata paragonata a quella che si sta verificando oggi.

Più di 1.000 studenti sono stati arrestati durante le brutali repressioni della polizia. Scene di poliziotti che marciano nei campus in tenuta antisommossa riempiono i social media, a cominciare dalla polizia di New York che ha sgomberato il primo accampamento alla Columbia il 18 aprile. In Texas, California, Ohio, Georgia e in altri luoghi, studenti e docenti sono stati ammanettati e trascinati in prigione. È altrettanto chiaro che la repressione non solo non riesce a fermare le proteste, ma ne alimenta lo slancio. Il contrasto tra le azioni genocide contro cui gli studenti protestano e le scuse che gli amministratori universitari adducono per giustificare la repressione è troppo evidente.

In effetti, nulla potrebbe essere più eloquente della virulenza delle accuse lanciate agli studenti e della violenza con cui vengono accolte le loro proteste. Abbiamo assistito a mesi di proteste da quando è scoppiata la guerra di Gaza il 7 ottobre, ma non c’era mai stata una reazione simile. Netanyahu paragona le proteste alle azioni naziste nei campus tedeschi degli anni Trenta. Biden dice: “Condanno le proteste antisemite”, dando carta bianca alla repressione della polizia. L’opposizione al genocidio viene descritta come “discorso d’odio”.

Il doppio senso orwelliano nel definire antisemite le manifestazioni in cui gli studenti ebrei sono protagonisti è davvero sbalorditivo. Secondo quanto riferito, circa 15 dei circa 100 arrestati della Columbia erano ebrei.

“Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione della Palestina perché ci ispiriamo ai nostri antenati ebrei che hanno combattuto per la libertà 4.000 anni fa”, hanno scritto alcuni di loro. “Quando la polizia è entrata nel nostro accampamento, abbiamo chiuso le braccia e cantato le canzoni dell’era dei diritti civili che molti dei nostri antenati più recenti recitavano negli anni ’60. Apparteniamo all’eredità dell’attivismo ebraico progressista che ha lavorato al di là delle linee razziali, di classe e religiose per trasformare le nostre comunità”.

Le forze pro-Israele sono terrorizzate dalla perdita di sostegno tra i giovani. Alcuni mesi fa, è stata diffusa una registrazione trapelata del direttore della Anti-Defamation League, Jonathan Greenblatt, in cui affermava: ” … abbiamo un grande, grande, grande problema generazionale … tutti i sondaggi che ho visto … suggeriscono che non si tratta di un divario tra destra e sinistra”. Il problema del sostegno degli Stati Uniti a Israele non è di destra o di sinistra. Si tratta di giovani e anziani… e quindi abbiamo davvero un problema TikTok, un problema Gen-Z”.

La recente approvazione da parte del Congresso di una legge che minaccia di vietare TikTok se non viene venduto dai suoi proprietari cinesi non deve sorprendere. Molti osservatori indicano la lobby di Israele come forza trainante.
Per i sostenitori di Israele è già abbastanza grave perdere giovani, soprattutto nelle università più prestigiose dove si formano i futuri membri dell’élite. Questo avviene nella nazione in cui il sostegno continuo è vitale per sostenere le azioni di Israele. La partecipazione di così tanti ebrei alle proteste spinge la situazione oltre il limite. Credo che questa sia la ragione principale dell’intensità e della falsità delle accuse e della violenta risposta della polizia. Il coinvolgimento degli ebrei deve essere cancellato, negato, diffamato.

Agli studenti di ogni credo e orientamento politico viene detto: “Rispettate le regole se volete mantenere le vostre prospettive di carriera”. Le sospensioni vengono minacciate ed eseguite. In una società più stratificata di quanto non fosse durante l’ondata di protesta degli anni Sessanta, nella quale la mobilità verso l’alto dipende più che mai dall’istruzione universitaria, e le tasse universitarie sono significativamente più alte, è stato necessario un notevole coraggio morale da parte degli studenti per organizzare accampamenti e rischiare l’arresto. La loro determinata resistenza dimostra la profondità del loro sdegno morale per ciò che stanno vedendo a Gaza e testimonia del loro carattere. Per tutte le critiche che sento rivolgere alle giovani generazioni da parte degli anziani, questo ci dà speranza per il futuro.

Un’altra ragione della dura rezione degli amministratori universitari è che gli studenti li stanno colpendo nel vivo, nel portafoglio cioè. Le università sono diventate macchine finanziarie con grandi dotazioni investite nel mercato azionario. Le richieste degli studenti di disinvestimento da Israele hanno toccato un nervo scoperto. La minaccia di perdere i contributi dei maggiori donatori pro-Israele e di perdere i contratti federali stipulati da politici pro-Israele, fa vibrare i cervelli rettili degli amministratori, i cui compensi sono ormai paragonabili a quelli dei loro colleghi del settore aziendale. Questo è troppo per loro.

Indipendentemente dal fatto che le proteste studentesche abbiano un impatto immediato, è importante ricordare una lezione del movimento di fine degli anni Sessanta. La guerra del Vietnam si sarebbe conclusa solo nel 1975. Ma le proteste del 1968 e del 1969 potrebbero aver evitato uno scenario orribile. Daniel Ellsberg, nel suo ultimo libro, The Doomsday Machine: Confessions of a Nuclear War Planner, racconta come il Pentagono proponesse allora l’impiego di armi nucleari in Vietnam. Le proteste convinsero Richard Nixon che ciò avrebbe provocato il caos e accantonò quei piani. Doug Dowd, uno degli esponenti della Nuova Sinistra degli anni Sessanta, che visitò il Vietnam del Nord durante la guerra, racconta nel suo libro Blues for America, come i vietnamiti abbiano riconosciuto al movimento pacifista statunitense il merito di aver fermato l’uso delle armi nucleari: A Critique, A Lament, and Some Memories. Hanno ringraziato il movimento per la pace, dicendo che era l’unica cosa che avrebbe potuto sconfiggerli.

Le occupazioni dei campus del 1968 portarono alle proteste di massa del 1969, in particolare alle moratorie autunnali a Washington, considerate da Ellsberg l’evento chiave che persuase Nixon. Certamente le proteste di oggi stanno mettendo a dura prova l’amministrazione Biden, ricordando come le proteste del 1968 portarono alla sconfitta dei Democratici nelle elezioni presidenziali di quell’anno. Le proteste di oggi potrebbero fermare o ridurre quello che sarebbe un attacco assolutamente devastante a Rafah, l’ultima concentrazione di popolazione a Gaza? Potrebbero portare a un cessate il fuoco? È difficile saperlo, ma la risposta esagerata alle proteste denuncia la profondità del loro impatto.

Gli studenti, ebrei e non, stanno praticando la lezione essenziale di tutti i percorsi di saggezza del mondo, la compassione per l’altro. Anche se la maggior parte di loro non è direttamente colpita da ciò che sta accadendo a Gaza, sono colpiti a un livello morale profondo e non possono rimanere in silenzio. Dobbiamo tutti prendere esempio da ciò che stanno facendo e seguirli nelle strade.

 

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