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Ministro del Lavoro Marina Calderone, facciamo il punto sulle misure varate per il lavoro. Quanti fondi avete messo in campo e in che direzione vanno?
«Sono 2 miliardi e 800 milioni messi a disposizione per la parte lavoro del Decreto Coesione appena approvato, più quelle per la riconversione delle competenze dei lavoratori delle grandi aziende in crisi. Sono fondi gestiti dal Ministero del lavoro, frutto di scelte importanti, coerenti con la strategia che ho adottato fin dall’inizio e che sta dando risultati. Le rilevazioni Istat confermano l’occupazione in costante crescita. Siamo al nuovo record del 62,1 per cento di occupati, pari a 425mila lavoratori in più rispetto all’anno scorso, col tasso più basso di disoccupazione da 16 anni, dopo la crisi Lehman. È sceso in un anno dal 7.9 per cento al 7.2, e il trend è in diminuzione».

C’è chi sostiene che questi numeri dipendono dall’economia che cresce e l’occupazione aumenta da sola…
«Certamente esiste una correlazione, che tra l’altro non riguarda solo l’Italia, ma la strategia è quella di approfittare al massimo delle opportunità offerte dal momento attuale, non disperderle e indirizzarle. Quello che stiamo facendo è portare al lavoro le categorie che ne erano rimaste ai margini, quelle sulle quali storicamente abbiamo i maggiori ritardi rispetto al resto d’Europa: giovani e donne, di qualsiasi età»

Una novità rispetto al passato?
«Facciamo crescere la buona occupazione: i contratti a tempo indeterminato, le nuove imprese, il lavoro autonomo e le libere professioni. I fatti ci stanno dando ragione: aumenta in modo consistente il lavoro stabile e quello autonomo, diminuiscono i contratti a termine. Quando sento parlare di lotta al lavoro precario e di precariato, specie giovanile, mi dico che è esattamente quello che stiamo facendo. Con azioni concrete e non a parole. Sono convinta che si debba applicare davvero il dettato costituzionale per cui la Repubblica italiana è fondata sul lavoro. E non sul sussidio. Stiamo investendo grandi risorse nel lavoro stabile e di qualità. A tempo indeterminato dev’essere il lavoro, non il sussidio. Quest’ultimo rischia di perpetuare la condizione di svantaggio e diventare uno strumento di esclusione, invece che di inclusione nel mondo del lavoro. Ovviamente, continuiamo a sostenere chi si trova in condizione di oggettiva fragilità».

L’Italia però ha livelli di occupazione giovanile e femminile lontani da quelli dei Paesi virtuosi europei.
«Troppi sono ancora i Neet, coloro che non studiano, non lavorano e non si formano. Eppure, sono proprio i giovani che devono entrare o rientrare nel mondo del lavoro per vincere la sfida demografica. La disoccupazione giovanile sta diminuendo, siamo al 20,1 per cento, ma non è ancora abbastanza. È per questo che nel Decreto Coesione abbiamo inserito un esonero per 24 mesi del 100% dei contributi previdenziali, fino a 650 euro al mese nel Sud Italia e 500 al Centro Nord, per chi assume a tempo indeterminato giovani sotto i 35 anni. Solo per questa misura, che sostiene i giovani e favorisce il lavoro stabile, investiamo oltre 1 miliardo di euro. Per chi avesse buone idee, energie e volontà di fare, ci sono aiuti a fondo perduto attraverso voucher e altri incentivi, con un’attenzione speciale alle nuove imprese nel settore della transizione digitale e green. Per le donne di qualsiasi età abbiamo previsto un esonero totale per le assunzioni stabili».

L’Italia è indietro per il divario territoriale. Quali interventi specifici per il Sud?
«Il bonus da 650 euro al mese varia, per le donne, a seconda del territorio: al Nord, per ottenerlo bisogna non aver avuto redditi da lavoro negli ultimi 24 mesi, al sud ne bastano sei. Il bonus Zes andrà invece alle imprese con meno di 10 dipendenti che assumano persone sopra i 35 anni, disoccupate da più di 24 mesi. Per due anni, queste aziende potranno scontare dai contributi un massimo di 650 euro mensili. E sosteniamo i lavoratori svantaggiati e il Sud, riconoscendo una riduzione del costo del lavoro per le aziende che facciano assunzioni».

Quanto ha inciso sul trend positivo dell’occupazione la fine del reddito di cittadinanza?
«Posso dire che ha inciso molto il peso dei sussidi a pioggia privi di una strategia di politiche attive per il lavoro. Il reddito di cittadinanza si è dimostrato fallimentare ai fini della nuova occupazione e dell’uscita dalla povertà. Bisogna mettere da parte gli approcci ideologici e la demagogia, e affrontare con serietà e competenza tecnica le questioni reali. I sussidi, o aiuti, senza stretta correlazione con misure efficaci di accompagnamento al lavoro non producono stimoli alla ricerca di nuovo lavoro. Questo ci dice l’esperienza del Rdc. Al contrario, l’introduzione di due misure, l’Adi (Assegno di inclusione) e l’Sfl (Supporto per la formazione e il lavoro), ha creato le condizioni per sbloccare o invertire questo trend». 

Ma gestire il gap tra domanda e offerta di lavoro ora è la vera sfida?
«Gestire in modo efficace l’incrocio tra domanda e offerta di lavori richiede un solido coinvolgimento di tutti gli attori del mondo del lavoro, perché possano condividere strategie e informazioni attraverso procedure che utilizzino le migliori tecnologie. Questa è l’esperienza che stiamo facendo con la piattaforma per il Sistema di inclusione sociale e lavorativa (Siisl)».

Sulla sicurezza sul lavoro siamo invece a un punto di svolta con nuovi ispettori, regole più stringenti e maggiori controlli, ma la strage non sembra arrestarsi?
«I nuovi strumenti introdotti hanno un disegno preciso: intensificare i controlli, come stiamo facendo attraverso l’assunzione di nuovi ispettori che presto potremo mettere a disposizione degli organismi deputati alle ispezioni. Puntiamo anche a rendere più efficaci le azioni di contrasto ai fenomeni illeciti. Abbiamo reintrodotto le sanzioni penali per chi affitta illecitamente la manodopera. Sappiamo bene quel che c’è dietro queste pratiche: lo sfruttamento del lavoro e la scarsa tutela della sicurezza delle persone. Inoltre, dopo 16 anni dall’introduzione del Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, abbiamo attuato la patente a crediti più volte chiesta nel tempo dai sindacati». 

Ma i sindacati chiedono di più?
«Il testo è legge e da martedì prossimo riprenderanno gli incontri del tavolo di confronto con le parti sociali per scrivere i decreti di attuazione. E’ fondamentale investire in promozione, sensibilizzazione e formazione sulla sicurezza. Un valore, la sicurezza, che parte dai luoghi di lavoro e deve ricomprendere tutti gli ambiti della vita delle persone. Il governo fa e farà la sua parte. La sicurezza, tuttavia, è una responsabilità collettiva, tema che non va utilizzato come momento di contrasto e contesa, ma promosso unitariamente in base una comune sensibilità».

Quale importanza attribuisce alla contrattazione di secondo livello?
«Fa bene alla produttività. È lo strumento per ampliare le tutele contrattuali costruendo un sistema di welfare in grado di soddisfare le aspettative di lavoratrici e lavoratori, attraverso meccanismi di premialità che valorizzano in modo opportuno le competenze e la crescita di lavoratrici e lavoratori, e l’introduzione di misure di welfare, anche familiare, tagliate sulle esigenze delle persone».

Perché dice no al salario minimo?
«Credo nel lavoro ben retribuito, non nel salario minimo per legge. E per retribuzione non intendo solo lo stipendio, ma le più ampie condizioni di vantaggio che si possono ottenere attraverso la contrattazione integrativa aziendale. Ritengo che si debba dare fiducia al modello italiano, fondato sull’interlocuzione con le parti sociali, e che di per sé può garantire le condizioni per cui il lavoro si possa definire dignitoso e di qualità». 



 

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