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Del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbiamo discusso tanto, ma ora che cominciano a vedersi i risultati? È relativamente facile capire se gli investimenti si stanno concretizzando, ma la vera novità del Pnrr consisteva nel legare investimenti e riforme: sono le riforme il cuore del piano, la strada perché gli investimenti si traducano in crescita e il Paese riesca ad essere più competitivo.
I circa 200 miliardi di euro che stanno arrivando dall’Europa non sono un regalo, almeno non del tutto. Settantadue miliardi di sovvenzioni a fondo perduto verranno pagati pro quota da tutti i Paesi della Ue, quindi anche da noi. Ma data la dimensione dell’Italia dovremmo pagarne di più. Gli altri circa 125 miliardi sono prestiti a lunghissimo termine (20-30 anni) e ad un tasso simile a quello che paga la Germania sul suo debito, quindi molto convenienti. Usare queste risorse per realizzare investimenti pubblici è certamente una buona idea, a meno che non si pensi che non servano. Se passate in treno dalle parti di Voghera vedrete l’arrivo della nuova galleria ferroviaria che valica gli Appennini e consentirà di raggiungere Milano da Genova in meno di un’ora. Per i genovesi, ma anche per molti milanesi, questo significa poter lavorare a Milano ma abitare davanti al mare in una città bellissima, vivace e con prezzi molto più bassi che a Milano. Il Pnrr trasferisce certamente un onere — come abbiamo visto, modesto — a carico dei nostri figli ma trasferisce anche una società in cui forse si vivrà meglio.

Investimenti significa anche sostegno alla crescita: del + 1 per cento di crescita che forse riusciremo a realizzare quest’anno, lo 0,9 per cento dipende, secondo il Documento di economia e finanza, dagli investimenti del Pnrr. Investimenti che avvengono sotto il controllo della Commissione europea per assicurarsi che non siano, appunto, denari gettati al vento. Chiedetelo al sindaco di Venezia che era riuscito a infilare nel Pnrr il nuovo stadio di calcio: arrivato a Bruxelles il progetto è stato immediatamente tagliato e ora il sindaco, se vuole l’impianto, dovrà farlo pagare al Venezia Football Club, o finanziarlo con le tasse dei cittadini.
Ma il punto centrale del piano sono le riforme che ci siamo impegnati a fare in cambio di quegli investimenti. Qui c’è un esempio illuminante perché affronta alla radice uno dei motivi della nostra bassa crescita e dello scarso afflusso di investimenti dall’estero: i tempi biblici della giustizia italiana.




















































Per quanto riguarda le cause civili la riforma della giustizia concordata nell’ambito del Pnrr prevede, entro il 2026, anno di fine del piano, la riduzione del 40%, dei tempi di decisione dei processi. A metà strada, 31 dicembre ‘23, la riduzione media raggiunta era del 17,4%, poco meno della metà del traguardo finale. Risultati analoghi per l’eliminazione dell’arretrato, un altro impegno della riforma: i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia mostrano che al 31 dicembre ’23 nelle Corti di appello era stato eliminato il 97% dell’arretrato accumulato fra il 31 dicembre 2017 e il 31 dicembre 2019; l’85% nei tribunali di primo livello. Margherita Cassano, primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, attribuisce questi risultati ad un cambiamento nella «cultura» della Giustizia. Può essere. Un cambiamento certamente c’è stato, altrimenti i dati riportati sarebbero difficili da capire. Ma la grande differenza fra un tribunale e l’altro, anche in località vicine (per esempio un grande miglioramento a Busto Arsizio, un mezzo disastro a Varese) indicano che rimane molto lavoro da fare. Positivi anche i risultati per la giustizia penale: qui i tempi di decisione del processo sono scesi del 25 per cento, con un miglioramento osservabile in tutte le fasi del giudizio: 27 per cento per i tribunali, 22,3 per cento in Appello, 33,8 per cento in Corte d’Appello.

Un’altra area dove i risultati sono positivi è la riorganizzazione delle stazioni di appalto attuata nell’ambito del nuovo Codice degli Appalti, un altro impegno del Pnrr. Prima della sua introduzione le stazioni appaltanti, cioè preposte alle gare per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni, potevano auto-qualificarsi: ad esempio un’università poteva avere anche 5 stazioni appaltanti, una che gestiva le gare per le matite del dipartimento di matematica, un’altra quelle per il dipartimento di lettere antiche, etc. Ora tutte le stazioni devono essere accreditate dall’Anac, l’Autorità Nazionale Anti-corruzione. Al 4 marzo scorso, 7.228 stazioni avevano chiesto di essere accreditate: di queste il 9% non ha neppure fatto domanda e queste stazioni sono state automaticamente spente; Il 13% delle domande è stato rigettato perché le stazioni richiedenti non soddisfacevano i criteri dell’Anac, il 10% è stato accettato con riserva. Alla fine circa 1.600 stazioni appaltanti sono state spente. Un risultato importante perché è la proliferazione di piccole stazioni appaltanti prive di competenze una delle ragioni per l’elevato costo della spesa pubblica. Un risultato che avrebbe potuto essere anche più importante se nel Consiglio dei ministri che approvò il nuovo Codice degli appalti il ministro Salvini non avesse salvato qualche migliaio di minuscole stazioni con la clausola che se, ad esempio, due piccoli Comuni con 100 cittadini ciascuno, formano un’Unione di Comuni con 200 cittadini, le loro due stazioni di appalto non devono necessariamente chiudere.

Non tutto quindi funziona: il ministero dell’Istruzione ad esempio è in ritardo soprattutto sulla costruzione di nuove scuole e nuovi asili, e non è il solo. Semplici inadempienze? Può darsi. Sarà lunga da ricercare la catena di interessi e di inefficienze che determina i mancati risultati. Ma lo Stato, così come le imprese, vive anche di messaggi. Del continuo richiamarsi alle strategie che sottendono alle sue azioni. E oggi, al di là di tanti risultati positivi, del Pnrr come agente di trasformazione e miglioramento dello Stato e del Paese, si rischiano di perdere le tracce.

5 maggio 2024

 

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