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Come noto, la Legge delega per la Riforma fiscale (L. 111/2023) ha fissato – nel corpus dell’articolo 4 – la definizione dei principi e dei criteri direttivi per la revisione dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui alla L. 212/2000, le cui disposizioni – per espressa previsione contenuta nel comma 1 – costituiscono pertanto principi generali dell’ordinamento e criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria.

In tale quadro, si inseriscono le ulteriori modifiche apportate in seno all’originario corpus della L. 212/2000 dal Legislatore al fine precipuo di valorizzare il principio del legittimo affidamento del contribuente e il principio di certezza del diritto in campo tributario.

La nuova previsione investe direttamente il comma 5 dell’articolo 8, L. 212/2000 estendendo anche alle scritture contabili l’obbligo di conservazione originariamente previsto per i soli atti e documenti contabili, che non può eccedere il termine di 10 anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione o utilizzazione.

Nell’ottica di garantire la certezza del diritto sotto l’aspetto tributario, è preclusa – decorso tale termine – la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di fondare pretese su tale documentazione.

Al riguardo, come già statuito dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 9834/2016, nell’ambito dell’attività accertativa tributaria resta fermo il principio per cui l’obbligo di conservazione di atti e documenti contabili non può eccedere il termine di 10 anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione, contenuto negli articoli 2220, cod. civ. e 8, comma 5, L. 212/2000.

Infatti, il disposto di cui al comma 2 dell’articolo 22, D.P.R. 600/1973 – per cui le scritture contabili obbligatorie devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, anche oltre il termine decennale – trova applicazione solo quando l’accertamento abbia avuto inizio prima del decorso del decennio e si protragga oltre tale periodo. Se così non fosse, infatti, il contribuente sarebbe costretto a conservare la documentazione probatoria per un tempo indefinito, in violazione della normativa citata nonché del diritto di difesa.

L’articolo 9-bis – Divieto del ne bis in idem nel procedimento tributario

La nuova disposizione contenuta nell’articolo 9-bis, L. 212/2000, prevede il diritto per il contribuente acché l’Amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo d’imposta.

L’intendimento del Legislatore è chiaro e mira a garantire il pieno e totale rispetto del divieto di ne bis in idem in campo tributario; ciò peraltro in armonia con quanto già statuito dall’articolo 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali laddove – al comma 1 – espressamente si statuisce che nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge e alla procedura penale di tale Stato.

La stessa Corte di Cassazione, con sentenza n. 21694/2020 ha comunque avuto modo di rimarcare che il nucleo del principio del ne bis in idem “… appare riconducibile, con peculiare riguardo alle sanzioni tributarie, al seguente enunciato: la sostanziale simultaneità del procedimento penale e di quello amministrativo-tributario, che assolvono a scopi diversi e complementari in relazione ai parametri normativi che giustificano l’esercizio dell’azione penale e attesa la pacifica circolazione probatoria tra i 2 giudizi del materiale ritualmente prodotto…; parallelamente nel giudizio penale… non osta alla irrogazione di una duplice sanzione (penale e tributaria), ferma la necessità di una valutazione, in concreto, della complessiva afflittività del cumulo sanzionatorio che deve rispondere a criteri di proporzionalità”.

 

Articolo 9-ter – Divieto di divulgazione dei dati del contribuente

La norma in commento viene introdotta nel corpus originario dello Statuto al fine di contemperare, armonizzandola, la duplice esigenza di garantire da un lato il corretto esercizio dell’azione amministrativa di tutela erariale e dall’altro il rispetto e la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale quale diritto fondamentale dell’Unione Europea.

Si ricorda che per trattamento dei dati deve intendersi – a norma dell’articolo 4, Regolamento UE 2016/679 – qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione.

Lo stesso Regolamento, inoltre, al successivo articolo 23 prevede anche che il diritto dell’Unione Europea o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento può limitare, mediante misure legislative, la portata degli obblighi e dei diritti degli interessati (si veda, nello specifico, l’articolo 12 e ss., Regolamento 679/2016) per salvaguardare, tra l’altro, anche altri importanti obiettivi di interesse pubblico generale dell’Unione Europea o di uno Stato membro, in particolare un rilevante interesse economico o finanziario dell’Unione Europea o di uno Stato membro, anche in materia monetaria, di bilancio e tributaria, di sanità pubblica e sicurezza sociale.

In tale contesto di riferimento, si innesta dunque, la previsione in esame che, con riferimento ai dati del contribuente:

  • da un lato, riconosce all’Amministrazione finanziaria, nell’esercizio delle proprie funzioni amministrative e di corretto prelievo erariale, il potere di acquisire, anche attraverso l’interoperabilità, i dati e le informazioni riguardanti i contribuenti, contenuti in banche dati di altri soggetti pubblici, nel rispetto in ogni caso delle limitazioni previste ex lege;
  • dall’altro, impone alla stessa Amministrazione finanziaria il divieto di divulgazione di tali dati e informazioni, rimanendo fermi comunque gli obblighi di trasparenza previsti per legge, ove non specificamente derogati.

 

Articolo 10 – Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente

Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia tributaria dalla L. 212/2000, articolo 10, comma 1, trovando origine nella Costituzione, e precisamente negli articoli 3, 23, 53 e 97, espressamente richiamati dall’articolo 1, Statuto, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa e amministrativa.

A differenza di altre norme dello Statuto, che presentano un contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesistente, la previsione del citato articolo 10, L. 212/2000,  è dunque espressiva di principi generali, anche di rango costituzionale, immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche prima della L. 212/2000, sicché essa vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a Costituzione, risultando così applicabile sia ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (cfr. Cassazione n. 17576/2002 e n. 7080/2004) sia ai rapporti fra contribuente ed ente impositore diverso dall’Amministrazione finanziaria dello Stato sia a elementi dell’imposizione diversi da sanzioni e interessi, giacché i casi di tutela espressamente enunciati dal comma 2, articolo 10, L. 212/2000 (attinenti all’area dell’irrogazione di sanzioni e della richiesta d’interessi) riguardano situazioni meramente esemplificative, legate a ipotesi maggiormente frequenti, ma non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti (in tal senso, si veda Cassazione, sentenza n. 21513/2006).

Nel delineato contesto, l’originaria previsione ex articolo 10, L. 212/2000 viene ora “integrata” al comma 2 da un secondo periodo limitatamente ai tributi unionali; nello specifico, infatti, il Legislatore ha espressamente previsto che “non sono … dovuti i tributi nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell’Amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengono successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti”.

Giova rimarcare, in merito, che la prefata disposizione, per espressa previsione ex articolo 2, D.Lgs. 219/2023 (Modifiche allo statuto dei diritti del contribuente) trova applicazione esclusivamente per i rapporti tributari sorti successivamente alla data del 18 gennaio 2024 (entrata in vigore del citato Decreto).

 

Articolo 10-quater – Esercizio del potere di autotutela obbligatoria

La previsione nasce in primis dall’avvertita esigenza di potenziare l’esercizio del potere di autotutela estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate, limitando la responsabilità nel giudizio amministrativo contabile dinanzi alla Corte dei Conti alle sole condotte dolose.

Come si legge nella Relazione illustrativa al provvedimento in commento, peraltro, la ratio della norma è da ricercarsi nell’esigenza “non solo di ripristinare un rapporto di correttezza tra il fisco ed i contribuenti, ma anche per gli effetti deflattivi che produrrebbe sul contenzioso. Ad oggi, infatti, accade spesso che a fronte di un atto palesemente illegittimo il contribuente ne richieda l’annullamento in autotutela all’Amministrazione ma, in caso di inerzia (o ritardo) della stessa, si veda costretto a proporre ricorso giurisdizionale nel termine di legge, onde evitare la definitività dell’atto che potrebbe essere di ostacolo ad un successivo (ad oggi discrezionale) annullamento d’ufficio”.

L’articolo in commento:

  • ricalca, con le opportune modifiche, l’analoga previsione contenuta nell’articolo 2, D.M. 37/1997 che, sino alla data del 18 gennaio 2024, costituisce il regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria;
  • elimina di fatto la facoltà per l’Amministrazione finanziaria che ora ha l’obbligo di procedere, in tutto o in parte, all’annullamento di atti di imposizione ovvero alla rinuncia all’imposizione, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi (non più, dunque, “in caso di non impugnabilità” previsto nell’originaria formulazione ante modifiche) nei seguenti casi di manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione (il riferimento è dunque alle valutazioni di fatto e in punto di diritto operate dall’ufficio):
  1. errore di persona;
  2. errore di calcolo;
  3. errore sull’individuazione del tributo;
  4. errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione finanziaria;
  5. errore sul presupposto d’imposta;
  6. mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti;
  7. mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza.

Per espressa previsione contenuta nel nuovo comma 2, tale obbligo non sussiste in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria, nonché decorso un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione.

Il comma 3, infine, con riguardo alle valutazioni di fatto operate dall’Amministrazione finanziaria, in caso di avvenuto esercizio dell’autotutela, statuisce che la responsabilità prevista dall’articolo 1, comma 1, L. 20/1994, e successive modificazioni (“Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti”) sia limitata alle sole ipotesi di dolo.

 

Articolo 11 – Interpello

In via generale, il Legislatore tributario ha inteso incidere sull’originaria versione dell’articolo 11, L. 212/2000 nell’ottica di razionalizzarne la disciplina così da:

  • ridurne il ricorso, attraverso un incremento di provvedimenti interpretativi di carattere generale, recanti anche una precisa casistica delle fattispecie di abuso del diritto;
  • rafforzare il divieto di presentazione, riservandone l’ammissibilità alle sole questioni che non trovano soluzione in documenti interpretativi già emanati;
  • subordinare:
  1. per le persone fisiche e i contribuenti di minori dimensioni, l’utilizzazione della procedura di interpello alle sole ipotesi in cui non sia possibile ottenere risposte scritte mediante servizi di interlocuzione rapida, realizzati anche attraverso l’utilizzo di tecnologie digitali e di intelligenza artificiale;
  2. l’ammissibilità delle istanze di interpello al versamento di un contributo, da graduare in relazione a diversi fattori, quali la tipologia di contribuente o il valore della questione oggetto dell’istanza, finalizzato al finanziamento della specializzazione e della formazione professionale continua del personale delle Agenzie fiscali.

 

Ambito di applicazione e requisiti previsti

In tale perimetro, pertanto è statuita la possibilità per il contribuente di interpellare l’Amministrazione finanziaria per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente alla:

  • applicazione delle disposizioni tributarie, quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla loro corretta interpretazione (c.d. “interpello interpretativo”); al riguardo, il comma 4 del medesimo articolo precisa che non ricorrono condizioni di obiettiva incertezza quando l’Amministrazione finanziaria ha fornito, mediante documenti di prassi o risoluzioni, la soluzione per fattispecie corrispondenti a quella rappresentata dal contribuente;
  • corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie a esse applicabili (c.d. “interpello qualificatorio”);
  • disciplina dell’abuso del diritto[1] in relazione a una specifica fattispecie (c.d. “interpello antiabuso”);
  • disapplicazione di disposizioni tributarie che, per contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del contribuente altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi (c.d. “interpello disapplicativo”);
  • sussistenza delle condizioni e valutazione della idoneità degli elementi probatori (c.d. “interpello probatorio”) richiesti dalla legge per, rispettivamente:

1. l’adozione di specifici regimi fiscali di cui, rispettivamente:

a) all’articolo 3 e ss., D.Lgs. 128/2015, istitutivi di un regime di adempimento collaborativo fra l’Agenzia delle entrate e i contribuenti (in possesso dei requisiti previsti all’articolo 4, D.Lgs. 128/2015) dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, inteso quale rischio di operare in violazione di norme di natura tributaria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento tributario;

b) ai soggetti che presentano le istanze di interpello per i nuovi investimenti di cui all’articolo 2, D.Lgs. 147/2015, da eseguirsi nel territorio dello Stato di ammontare non inferiore a 15 milioni di euro e che abbiano ricadute occupazionali significative in relazione all’attività in cui avviene l’investimento e durature; in tal caso, l’interpello ha la finalità di assumere elementi in merito al trattamento fiscale del loro piano di investimento e delle eventuali operazioni straordinarie che si ipotizzano per la sua realizzazione, ivi inclusa, ove necessaria, la valutazione circa l’esistenza o meno di un’azienda;

2. l’esercizio dell’opzione per l’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero realizzati da persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia (ex articolo 24-bis, Tuir).

Il nuovo comma 3 della norma in trattazione, inoltre, richiede, per la presentazione della istanza di interpello, il versamento di un contributo, destinato a finanziare iniziative per implementare la formazione del personale delle Agenzie fiscali, demandando a un successivo D.M. la fissazione della relativa misura e delle relative modalità di corresponsione, in funzione della tipologia di contribuente, del suo volume di affari o di ricavi e della particolare rilevanza e complessità della questione oggetto di istanza.

 

Termini di risposta

L’Amministrazione finanziaria, a norma del comma 5, risponde alle istanze di interpello nel termine di 90 giorni che, in ogni caso, è sospeso tra il 1° e il 31 agosto e ogni volta che è obbligatorio chiedere un parere preventivo ad altra Amministrazione.

Rimane fermo comunque – ex articolo 4, D.Lgs. 156/2015 – che quando non sia possibile fornire risposta sulla base dei documenti allegati, l’Amministrazione finanziaria chiede, una sola volta, all’istante di integrare la documentazione presentata.

In tal caso il parere è reso, entro 60 giorni dalla ricezione della documentazione integrativa.

La mancata presentazione della documentazione richiesta come sopra indicato, entro il termine di un anno comporta la rinuncia all’istanza di interpello, ferma restando la facoltà di presentazione di una nuova istanza, ove ricorrano i presupposti previsti dalla Legge.

In ogni caso, se il parere non è reso entro 60 giorni dalla richiesta, l’Amministrazione finanziaria risponde comunque all’istanza di interpello; la risposta resa vincola, senza esclusione alcuna, ogni organo dell’Amministrazione finanziaria con esclusivo riferimento, però, alla questione oggetto dell’istanza e limitatamente al richiedente.

In assenza di risposta dell’ufficio nei termini previsti, vige poi il principio del silenzio assenso a favore ovviamente della soluzione prospettata dal richiedente nell’istanza.

 

Effetti

È prevista l’annullabilità di tutti gli atti, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio difformi dalla risposta, espressa o tacita attinente alla questione esposta dal contribuente.

In comunione con quanto sopra, inoltre, gli effetti della risposta alla istanza di interpello si estendono ai comportamenti successivi del contribuente riconducibili alla fattispecie già oggetto di interpello, salvo la possibilità per l’ufficio di rettificare la soluzione interpretativa con valenza esclusivamente per gli eventuali comportamenti futuri dell’istante.

La presentazione della istanza di interpello non incide in alcun modo sulle scadenze previste dalle norme tributarie né sulla decorrenza dei termini di decadenza e non comporta interruzione o sospensione dei termini prescrizionali.

Resta fermo, altresì, che la risposta resa all’istanza di interpello non costituisce atto impugnabile.

Come precisato, infine, nella citata Relazione illustrativa, “a seguito dell’introduzione del principio generale di partecipazione al procedimento di accertamento, indipendentemente dalle modalità con cui viene effettuato il controllo, la tutela del contribuente diventa operativa anche nelle ipotesi in cui, a seguito di accessi, ispezioni e verifiche, sia stato redatto e consegnato un processo verbale di constatazione”.

 

[1] Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni (articolo 10-bis, L. 212/2000).

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso.

 

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